Forse è vero che c’è un tempo per tutte le cose. Che oggi ci si ama, domani si odia e ogni cosa sotto il sole deve attendere il suo turno, con le mani umili e conserte, aggrappate al cappello.
Forse è vero che l’infinita varietà dell’esistenza è scandita secondo un ritmo, che ne governa il flusso, e altro non si può fare, se non lasciarsi trascinare placidamente da quest’onda. Sopravvivendo, ognuno come può.
Forse è vero, ma noi non ci crediamo.
L’ardente pazienza non porta alla felicità, ma alla fine di tutte le passioni, allo spegnersi inavvertito del fuoco che brucia dentro, lasciando una desolazione di cenere e sogni smarriti.
La felicità deriva dalla responsabilità, è il più genuino prodotto di quell’intimo lavorio che consiste nel tentare di adattare ciò che siamo alle persone che vorremmo essere. Un compito che inchioda alla coerenza e non permette doppie morali. Ad esso ci si arriva con il sudore e la consapevolezza del fatto che il tempo di ogni cosa lo creiamo noi, con le nostra braccia e le nostre menti e l’etica testona di chi ha deciso di percorrere il proprio cammino.
Felicità è andare nel mondo e fare e sbagliarsi e cambiare, è rompere gli argini, è convincersi che di argini non ce ne sono. E vedere che le idee possono scendere dal loro lontano iperuranio e prendere ad abitare la realtà terrigna e materiale di questa nostra quotidiana fatica.
Non c’è altro significato dietro al nome Labouratorio, dove quella u, messa lì in mezzo, sta ad aggiungere che la felicità non ha alcun senso se è una goccia nel deserto.
Perché non è vero quello che ci hanno insegnato, vale a dire che la libertà, l’agire e il poter agire, ossia l’anticamera della felicità, si ferma una volta incontrata la sfera di una libertà diversa, quella di qualcun altro. Come fossimo particelle a sé stanti, impegnate a respingersi reciprocamente.
No. Noi crediamo che la libertà inizi dove e nel momento in cui inizia la libertà degli altri, perché non si può essere davvero liberi e felici se al nostro fianco languono i derisi, i calpestati, gli oppressi, gli sconfitti ancora prima di avere combattuto. “Perché non c’è amore possibile in un mondo infelice“.
Il che equivale a rovesciare le lenti del cannocchiale retroverso attraverso cui guardiamo alle cose della vita. Siamo una generazione stanca, con il ventre gonfio e il cuore a forma di salvadanaio: ripiegati sui nostri bisogni più immediati e disattenti a molto di ciò che esiste al di là di questi, siamo fagocitati dall’impero di un ego talmente piccolo da apparire grottesco, e abbiamo ormai smesso di contare il numero delle volte in cui abbiamo abbassato gli occhi sulla play-station.
C’è troppo da perdere, per accorgerci che stiamo perdendo tutto quello che abbiamo, e preferiamo fare finta di niente, rimirando allo specchio la certezza fasulla che non abbiamo niente da dire o da fare al riguardo.
In questa catastrofe, che è ogni giorno in cui non accade nulla, Labouratorio vorrebbe servire a mettere in ordine alcune priorità, raccontare storie e unire persone, porsi domande e cercare risposte.
Perché non c’è nulla di più entusiasmante del trovarsi, allungare le dita fino a toccarsi, prendersi per mano, incrociare i propri occhi e sentirci membri di una comunità di destino che attende solo l’occasione e il luogo giusto per rendersi conto della propria esistenza.
Lo faremo senza mezzi, senza chiese, senza mode, senza sette o partiti da servire o fazioni da compiacere, senza sistemi, senza verità alla luce delle quali filtrare e misurare le parole.
Non staremo tra i mestieranti della politica ed il loro cencioso attivismo dove tutto ciò che conta è il cieco movimento, né con i profeti immacolati, acclamati dal popolo perché al soldo di qualche potente e di tutti i potenti insieme, la cui grandezza è misurata dalla proporzione degli applausi ricevuti.
Non ci troverete nemmeno tra le fila degli “avventurieri della disubbidienza facile, i cultori del fanatismo sanguinoso, i cialtroni per cui la parola rivoluzione è un chewing-gum da tenere in bocca, un pretesto per combattere la noia”, sempre pronti a salire sulle barricate per scenderne durante le feste comandate.
Ci troverete qua, semplicemente. Anzi: ci troveremo qua, insieme. Perché se c’è una cosa che ha significato fare, quella cosa è sostituire il noi ai tanti io che compongono gli stonati cori di questa mediocre post-modernità.