Un diverso scrutare. Come si può sostenere la fine del capitalismo senza essere Marxisti

97880034_1b71d7417e_o.jpgNel 2007 è stato ripubblicato un lavoro “divulgativo” del filosofo Emanuele Severino – “Il declino del capitalismo” – dato alle stampe – nel 1993. Severino nella sua opera, da un’ottica del tutto diversa da quella marxista, spiega il paradosso del capitalismo, destinato a distruggere se stesso sia se continua a perseguire il proprio scopo naturale sia se decide di subordinarlo alla salvezza della Terra. Il Nostro è tra i massimi filosofi mondiali viventi, probabilmente il più importante in Italia. Massimo Cacciari lo definisce un gigante, l’unico filosofo che nel Novecento si possa contrapporre a Heidegger.

Sintetizzando al massimo il suo pensiero, per Severino il nichilismo è la suprema follia dell’Occidente, è la nientificazione di tutte le cose, il pensare e il vivere tutte le cose come se fossero niente nel loro incessante divenire. Allora, se tutto è diveniente, l’unico valore in campo è la potenza con cui si controlla il divenire. Questa potenza è la tecnica perché, se non esiste una verità assoluta, c‘è la subordinazione alla tecnica da parte di quelle forze della tradizione che, invece, ancora in modo più o meno diretto sono legate al riconoscimento del divino e della verità assoluta.

Pertanto, afferma Severino, il corso della civiltà umana ha imboccato il “piano inclinato”, che sta facendo cadere tutte le forme e le verità assolute della nostra civiltà – cristianesimo, islam, capitalismo, comunismo, democrazia e via elencando – nel relativismo così da condurre quei valori ritenuti “immutabili” alla loro fine. “Ciò che inclina quel piano è da un lato il cuore della modernità, ossia il pensiero filosofico degli ultimi duecento anni, che mostra l’inevitabilità e irrefutabilità della <morte di Dio>; dall’altro lato è la <tecnica> guidata dalla scienza moderna”.

Per quanto riguarda il sistema capitalistico, la previsione avanzata da Severino circa la progressiva sparizione della ragion d’essere del capitalismo, in quanto epifenomeno del divenire occidentale, ha suscitato violenti attacchi dal mondo imprenditoriale (celebre un articolo uscito anni fa sul Sole24Ore di un vice-presidente della Confindustria che accusò Severino di essere un alleato del comunismo bolscevico) e altrettanti virulenti attacchi dall’area culturale del comunismo di varia estrazione circa la sua affermazione della scomparsa del comunismo insieme a tutti gli altri valori “immutabili” travolti dal trionfo della ragione tecnologica. E tutte queste polemiche alla luce della rigorosa visione millenaristica, ontologica e metafisica di Severino, fanno un po’ sorridere. Infatti è del tutto fuori luogo cercare di applicare le categorie tradizionali dell’analisi politica al pensiero di Severino.

Nel 1993 il dibattito internazionale era ancora completamente occupato dalla fine del comunismo; l’attentato dinamitardo che squassò le torri gemelle proprio in quell’anno era solo la prova generale dei catastrofici eventi del 2001. Tuttavia l’analisi del filosofo coglie fenomeni che sono epocali: il declino del capitalismo, intuibile già da parecchio tempo, sembra contraddire la vittoria dell’Occidente capitalista sull’Oriente comunista. Ma è una contraddizione che si scioglie, se si esamina la questione fondamentale della possibilità che il capitalismo sia costretto a subordinare il profitto – suo scopo essenziale – ad altre finalità ad esso esterne. O che, non rinunciando al profitto, finisca col distruggere la Terra e quindi la possibilità stessa della propria esistenza.

Ma quali sono queste finalità esterne che piegano il capitalismo alla rinuncia finale del suo intimo motivo di esistenza? Scrive Severino: “Nella misura in cui prende coscienza o si convince del proprio carattere distruttivo e autodistruttivo, il capitalismo procede alla mobilitazione delle forme di energia alternativa – rese disponibili dallo sviluppo tecnologico -, che determinino una quantità sempre minore di inquinamento e di distruzione. Per sperare di sopravvivere, il capitalismo si sottomette, cioè, all’apparato tecnico della salvaguardia ambientale. Se non potesse rivolgersi all’innovazione tecnologica e perpetuasse le forme attuali della produzione con l’impiego delle forme di energia attualmente utilizzate, il capitalismo si troverebbe di fronte a questo dilemma: o imporre alla società la perpetuazione delle forme di produzione da esso attualmente praticate, provocando «realmente» la distruzione della Terra – o attivando sempre di più la «convinzione» che le sue procedure economiche distruggono la Terra -; oppure rinunciare alla produzione in vista del profitto e produrre limitatamente in vista della sopravvivenza della Terra. Nel primo caso, la produzione economica o perviene «realmente» alla distruzione della propria base naturale e quindi alla distruzione di se stessa, oppure alimenta a tal punto quella «convinzione» circa il suo carattere distruttivo da provocare il rifiuto della società a proseguire sulla strada del capitalismo. Nel secondo caso, il capitalismo, costretto ad assumere come scopo primario la sopravvivenza della Terra e dunque a rinunciare al proprio scopo, cioè al profitto, è costretto a rinunciare a se stesso. O distrugge la Terra, e quindi distrugge se stesso; oppure si dà un fine diverso da quello per il quale esso è quello che è, e anche in questo caso distrugge se stesso.”

In conclusione, secondo Severino, ci troviamo sulla soglia di una profonda svolta, dove un insieme di fattori preme perché il capitalismo non abbia più come scopo il profitto, ma la salvezza della Terra. E questo è, appunto, il processo per cui il capitalismo si avvia verso il tramonto.