Come piccolo contributo a chiarir chi fosse il socialista Camillo Prampolini (Reggio Emilia 1857 – Milano 1930) vi proponiamo un piccolo, ma significativo estratto dal Dizionario biografico de Il Movimento Operaio Italiano di Franco Andreucci e Tommaso Detti (Editori Riuniti, 1978, Roma). Una piccola parte delle oltre 10 pagine dedicate a Prampolini.
Inoltre vi alleghiamo anche la celebre Predica di Natale pubblicato sulla rivista “La Giustizia” il 24 Dicembre 1897. Al riguardo segnaliamo anche questo intervento di Mauro Del Bue del 20 dicembre 2007.
Prampolini Camillo
“[…] Nelle polemiche di corrente sostenne sempre l’indirizzo gradualista. In preparazione del congresso di Imola (6-9 settembre 1902) e successivamente, difese tale indirizzo soprattutto in polemica con Ferri […] Ma la presenza di P. nelle lotte interne e nei conflitti di carattere ideologico – pur non venendo mai meno nei congressi locali e nazionali – si era rarefatta e si manifestava solo in «in momenti di particolare gravità». Considerava «come assolutamente preminente il lavoro che oggi in gergo politico si chiama di base, il lavoro cioè di minuta propaganda, di organizzazione di leghe e cooperative, di cura delle amministrazioni comunali della sua zona, allo scopo di penetrare attraverso questi strumenti nei gangli delle strutture borghesi locali» (G. Arfé) […].
Nei confronti del clero e della Chiesa P. fu sempre aspramente polemico e, mentre faceva salvi e tentava anzi di assimilare alla propria predicazione i motivi sociali del cristianesimo, indicava nel clero uno strumento di conservazione e di protezione dei privilegi padronali. La Giustizia era stata scomunicata dal vescovo per la pubblicazione della Predica di Natale e lo stesso P. veniva bollato da molti parroci come insinuatore di costumi anticristiani e immorali. Ma Romolo Murri (parliamo di personaggi di spessore un po’ diverso dai Pizza di oggi … ndInoz), dopo un contraddittorio del 21 aprile 1901 al politeama Ariosto, aveva riunito gli esponenti cattolici reggiani per convincerli che non aveva senso battersi contro P. senza occuparsi degli operai, «che con tanto affetto si volgevano» a lui perché «aveva il merito di avere conosciuto i tempi». Per le campagne elettorali amministrative e politiche del 1904 e del 1905 il vescovo Marchi invitò i cattolici a ignorare il non expedit allo scopo di combattere P. e gli altri candidati socialisti. Il clero infatti entrò nella coalizione elettorale che, raccogliendo agrari, industriali, professionisti e commercianti, intendeva bloccare l’opera delle cooperative, dei sindacati e dei comuni socialisti in nome della fede religiosa e del «Bene economico» (questa era la denominazione assunta dal cartello clerico-moderato, ironicamente convertita in «Grande armata» dalla Giustizia). La coalizione riuscì a vincere le elezioni sia politiche che amministrative, tornando poi alla sconfitta nel 1907, soprattutto grazie al lavoro di alfabetizzazione e di iscrizione di migliaia di lavoratori nell’elettorato attivo, capillarmente organizzato da Ettore Catalani.
Quasi sempre presente nell’amministrazione provinciale e nel consiglio comunale del capoluogo, P. occupò a più riprese diverse altre cariche, come la presidenza di istituzioni operaie e la presidenza della Cassa di risparmio di Reggio Emilia dal 1904 al 1908 e dal 1921 al 1922. Il suo lavoro continuava pertanto a svolgersi quasi esclusivamente nell’ambito locale. Partecipò alla lotta contro i tripolini (i socialisti favorevoli alla guerra di Libia ndInoz) e i riformisti di destra, ma preoccupandosi al tempo stesso di mantenere l’unità del partito. […]
Membro della delegazione del PSI alla conferenza di Kienthal (24 aprile 1916), dove Serrati appoggiò le tesi rivoluzionarie di Lenin, P. mantenne, unitamente ai restanti delegati italiani, riserve «di principio» che sostanzialmente escludevano la possibilità di uno sbocco rivoluzionario della guerra mondiale. Anche nel dopoguerra, nei congressi locali e nazionali, si oppose a soluzioni rivoluzionarie rimproverando al tempo stesso al massimalismo italiano il carattere astratto e puramente verbale dei suoi appelli. Lenin, che nelle lotte del «biennio rosso» aveva identificato un’obiettiva possibilità di sviluppi rivoluzionari in Italia, condannò l’azione di Turati, D’Aragona e P. come manovra tendente a «ostacolare la rivoluzione». La Giustizia aveva qualificato «praticamente utopistico e moralmente ripugnante» il metodo bolscevico, suscitando aspre critiche da parte dell’Ordine nuovo di Gramsci, che attribuì a P. e Zibordi il ruolo di «guardie bianche» […].”