Piero Gobetti, scrittore, editore, antifascista, vero e proprio organizzatore di cultura, è una delle figure che più mi ha colpito nel corso dell’adolescenza.
Fin troppo facile risulterebbe per un liberale di sinistra farne un mito, ma qui occorre far posto ad un’analisi più fredda del suo pensiero per comprendere meglio il dibattito che si è scatenato intorno alla sua figura negli ultimi 15 anni.
Uso non a caso la parola “scatenato” perché, proprio a pochi anni dalla caduta del muro di Berlino, Gobetti è stato ora esaltato ora accusato di essere un contraffattore del liberalismo.
A chi scrive è sembrata più una partita fra intellettuali di professione, una gara a dimostrare chi è “l’autentico liberale” in Italia facendo un uso politico spericolato della storia.
Se da una parte il filone neoliberale (in primis Bedeschi e Galli della Loggia) ha visto in Gobetti un fraintenditore del liberalismo e un criptocomunista, dall’altra un settore della sinistra che fa riferimento alla rivista Micromega di Flores d’Arcais e che si autodefinisce continuatrice dell’eredità etico-politica dell’azionismo ha elogiato le analisi di Gobetti per la profonda attualità.
Certo che raffigurare Gobetti come un fascista alla rovescia da un lato o parlare di Mani Pulite come la traduzione a livello giudiziario della rivoluzione liberale gobettiana sconcerta chi abbia letto con curiosità gli scritti di Gobetti cercando di storicizzarli.
Si può parlare di un Gobetti intollerante quanto i fascisti come fa Bedeschi senza distinguere fra vittime e carnefici? L’orgoglio con cui Gobetti descrisse la resistenza opposta agli aggressori a Bedeschi sembra fascismo alla rovescia, eppure quando Gobetti scrisse L’elogio della ghigliottina, egli chiedeva la ghigliottina per sé e per gli oppositori del regime sperando che solo portando alle estreme conseguenze la logica della dittatura la coscienza popolare si potesse risvegliare…
Si può forse dire che l’analisi gobettiana fosse subalterna al pensiero gramsciano e che non avesse nulla di tipicamente liberale?
Ciò che vide (anche con eccessivo ottimismo) Gobetti nel proletariato operaio torinese fu la nuova classe dirigente che avrebbe sostituito la borghesia, non per instaurare il socialismo reale, ma per salvare il capitalismo (il paradosso dei “becchini del capitalismo”).
Diffidente del valore dell’uguaglianza, acerrimo nemico del protezionismo e dello statalismo, sostenitore del conflittualismo democratico, Gobetti si pone sulla scia di Einaudi e Salvemini: finanche le critiche al giolittismo e al riformismo turatiano sono dei riflessi della lezione salveminiana (e per la morte precoce non poté rivedere quei giudizi come fece invece il maestro).
Qui allora è meglio chiarire i rapporti fra Gobetti e i comunisti per verificare la sostenibilità dell’accusa di criptocomunismo.
In una lettera a Giorgio Amendola Carlo Rosselli scrisse: “ Voi vi dichiarate scolaro di Gobetti. Ma ricordate il bilancio del marxismo che faceva Gobetti? Accettate ancora questo bilancio? Credete voi che Gobetti avrebbe accolto con altrettanta disinvoltura il metodo della dittatura, il mito della avanguardia del proletariato, la soppressione per decreto delle classi e tutto l’armamentario che distingue in Europa il comunismo ufficiale? No che non l’accettava. E difatti non entrò nel partito e, anzi, progressivamente se ne allontanò. Gramsci dice che Gobetti non sarebbe mai stato comunista. Perché non lo sarebbe mai stato? E perché, se non lo sarebbe mai stato, lo siete diventato voi; perché lo dovremmo diventare noi, che non abbiamo neppure, come Gobetti, gli attaches sentimentali per l’ambiente dell’Ordine Nuovo?”.
Non se ne accorsero né Rosselli, né Croce, né Salvemini, né Gramsci dell’inesistenza del liberalismo gobettiano, se ne accorgono oggi Bedeschi e Galli della Loggia …
Ma se Sparta piange, Atene non ride …
Alquanto improbabile ci pare, infatti, fare una “lettura gobettiana” di Mani Pulite. Qui sì, viene facile imputare a Flores d’Arcais quel moralismo di cui viene incolpato Gobetti: ciò che interessava più all’intellettuale torinese era la formazione di una nuova classe dirigente e la presa di coscienza dei vizi storici italiani (che vanno ben al di là del codice penale).
Il liberarsi di Craxi o di Berlusconi per un gobettiano non può avere alcun valore palingenetico e nemmeno la riproposizione schematica di un liberalismo rivoluzionario come coscienza critica del fu PCI riesce a cogliere la particolarità dell’opera gobettiana, un’opera innanzitutto culturale e nutrita di continuo confronto con la realtà del tempo, che non ha schemi e ideologie da riproporre sempre uguali a sé stesse, ma che può fungere da esempio a quanti oggi, soprattutto giovani, abbiano il coraggio di proporre qualcosa di nuovo in campo culturale e politico.