Non so a quanti di voi sia capitato di non poter passare il Natale a casa perché inchiodati ad un letto d’ospedale. Ci ripensavo proprio ieri sera, quando tornando alle pendici del mio amato Vulture i ricordi del passato prendevano il sopravvento e un brivido felino attraversava il mio corpo.
No, non era il freddo, la mente ritornava inconsciamente a quel dicembre di 6 anni fa, a quel brutto incidente, a quel mese di ospedale, a quei tanti dolori sopportati. Eppure anche quell’anno “il bambiniello” nacque lo stesso..
Io leggevo l’aria natalizia nelle parole, nei gesti e nelle cure del personale medico e paramedico, nella noia e nella acidità di chi mal sopportava il dover rinunciare all’abbondante pranzo natalizio con parenti e amici o nella gioia e nella felicità di chi con un sorriso provava ad alleviare il tuo dolore. A Natale era già quasi un mese che ormai ero domiciliato presso il reparto di neurochirurgia dell’ospedale S.Carlo di Potenza e quindi conoscevo un po’ tutto il personale. Per convenzione l’avevo diviso in due gruppi: i buoni e i cattivi. Il discrimine che utilizzai allora era il farmi o meno male quando mi facevano le siringhe. Rileggendo oggi quel discrimine non posso non vederci la capacità di immedesimarsi nella condizione del paziente, di ridurre fino a quasi annullare la distanza da esso, di esercitare la professione medica e paramedica con l’obiettivo di essere a servizio dell’umanità. Oggi la sanità italiana ha la necessità di riscoprire i valori dell’umanesimo, di riscoprire il valore dei malati e di ricordarsi che anche se inerme in un letto il malato è comunque una persona dotata di dignità.
Troppe volte “l’uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza” quasi come se quella cultura del dolore come una catarsi, una punizione contro la quale non bisogna ribellarsi fosse ancora così ben radicata in Italia da giustificare tutto, persino l’accanimento terapeutico. Io a questo cultura non ci sto e penso ci sia la necessità di affermare il prima possibile il diritto a non soffrire, il diritto per il paziente a vivere al meglio la propria vita anche da malati. Ricordo le parole del ministro Turco che in aprile affermava:
“Promuovere le terapie antidolore è un’operazione di civiltà, perché è doveroso consentire al maggior numero di malati possibile di vivere la propria malattia senza dolore”.
La realtà però è ancora lontana dai buoni propositi.
Leggevo qualche settimana fa i dati di un’Italia fanalino di coda in Europa nel consumo di oppioidi con una spesa annua di 0,52 € pro-capite, rispetto ai 7,25 della Germania, ai 3,45 del Regno Unito, ai 2,36 della penultima Francia; di un’Italia in cui muoiono novantamila malati oncologici all’anno senza terapia del dolore.
Nel leggere questi dati non ho potuto non ricordare le parole di Primo Levi “Se non alleviamo il dolore siamo noi i carnefici”. L’uomo non può essere carnefice di se stesso. Il mio augurio per questo Natale è volto affinché sempre più persone possano impegnarsi per far vedere la luce a chi oggi vive nel tunnel della sofferenza.