E’ lo Stato un soggetto trascendente, emanazione di Dio in terra, infallibile per il suo primato etico, ente che concede ai cittadini i diritti di cui essi usufruiscono? Oppure lo Stato è frutto di un patto sociale, di un accordo tra donne e uomini già naturalmente in possesso dei propri diritti, e che decidono di sacrificare parte della propria libertà per regolare le relazioni sociali? Con una eccessivamente grossolana semplificazione, la domanda potrebbe essere: ha ragione Hegel o ha ragione Locke?
Sebbene possa sembrare pura astrazione intellettuale, una questione prettamente adatta a sedi accademiche, dalla tenzone tra queste due concezioni primarie ed opposite scaturisce in realtà un’importantissima disquisizione sulla natura fondante dello Stato, che si ripercuote necessariamente nella declinazione e nella regolazione dei rapporti concernenti la socialità umana all’interno dello stesso.
Da una parte chi afferma che le prerogative dell’entità-Stato siano quelle di definire, secondo criteri morali solitamente mutuati dalla Tradizione e, direttamente od indirettamente, da Dio, delle sfere dicotomiche di Bene e Male in base alle quali legiferare ed in funzione delle quali imporre ai cittadini doveri e concedere loro diritti: su queste basi, in ogni tempo, si sono erette le monarchie assolute e le teocrazie, quelle situazioni cioè di identità tra potere temporale e spirituale, dove i precetti religiosi vengono trasposti in leggi, dove vi è un’eguaglianza algebrica tra dettami sacri e norme statuali. Tratto distintivo dello Stato teocratico è l’intangibilità della Legge, che non può essere modificata in quanto emanazione del Verbo divino, e dunque la sua mancanza di democraticità, il suo fondamento acontrattualistico, la sua natura totalitaria.
Dall’altra parte c’è invece chi ritiene che lo Stato non possa permettersi di ledere la dignità della persona, la sua particolarità, i suoi diritti primari, poichè nasce quale regolatore dei rapporti tra gli uomini per la libera scelta da parte di un gruppo d’individui di divenire cittadini, dando vita ad un contratto sociale. Il concetto di contratto sociale come base del potere, introdotto da Hobbes e Locke, risulta propedeutico alla progressiva laicizzazione della politica, al suo emanciparsi dai vincoli della religione, e quindi, con Rousseau, alla concezione della decisione politica come espressione della volontà generale dei membri della comunità, per giungere all’uguaglianza politica, ed infine alla democrazia, al potere del popolo anzichè del Dio, o di chi ne fa in vario modo le veci. L’idea stessa di Stato moderno, nettata dalle derive hobbesiane dei totalitarismi del XX secolo, prende indiscutibilmente le mosse dalla visione contrattualistica di John Locke, sul potere quale estrinsecarsi di un accordo, predicato di una volontà condivisa della comunità intera. Le due strade insomma, quella “democratica” e quella “teocratica” appaiono costituzionalmente differenti, e, dal momento che tertium non datur, inconciliabili. Una sintesi tra esse, a dire il vero, potrebbe essere vista nel Leviatano di Hobbes, ircocervo politico dal volto degli Stalin e degli Hitler, che è dunque meglio lasciare riposto nelle pagine dei manuali.
D’altro canto, se la gran maggioranza degli Stati moderni ha imboccato, in gradi e forme differenti, la prima via, è altresì vero che esistono ad oggi molteplici esempi di teocrazie, soprattutto nell’area musulmana: si passa dall’Iran, dove un pugno di sacerdoti, gli ayatollah, maschera il proprio potere assoluto concedendosi il vezzo di indire elezioni sedicenti libere, all’Arabia Saudita, dove la sharìa, la legge coranica, regna sovrana, all’Afghanistan prima della deposizione del regime Talebano, uno delle più brutali, barbare, rabbiose dittature mai conosciute dalla storia dell’umanità.
In Occidente invece è riservato a Dio il più alto scranno solo in un caso, il Vaticano, cittadella storicamente riottosa nei confronti del confinante Belpaese, e che a partire dal 2004 ha iniziato a schierarsi apertamente e sistemicamente nelle questioni politiche interne dello stato Italiano, tra qualche fischio e i tanti applausi di chi dimentica l’evoluzione storica soggiacente alle conquiste del pensiero moderno. Dal momento infatti che le seconde nascono dalla prima, è innegabile l’efficacia della laicizzazione dello Stato, della separazione tra potere spirituale e gestione della cosa comune, quale strumento, meccanismo e argine difensivo nei confronti delle deflagrazioni d’odio che insanguinarono l’Europa sotto le forme di persecuzioni ed eccidi delle minoranze religiose, come avvenne contro gli ebrei, gli ugonotti, i valdesi, soprattutto a partire dal XVII secolo.
Il patrimonio di pensiero storico e filosofico che l’esperienza europea ci lascia può e deve fare riflettere. Esso ci insegna che aprire la porta delle Leggi alla dottrina del trascendente può sottrarre al popolo il potere di autogovernarsi, che molte volte il caso fa giurisprudenza, che quelle due strade sono spesso divergenti, lontane, a volte addirittura pericolosamente incompatibili. Attenzione quindi a sovrapporle con troppa faciloneria (o a farsi però con altrettanta faciloneria apostoli del contrario), alla ricerca di un mero consenso elettorale, come amano tanto fare i politici nostrani.