Ripercorrere, a grandi linee, la storia del socialismo italiano, significa porre la lente d’ingrandimento sugli eventi che hanno accompagnato, dalla nascita alla diaspora, quel partito dei lavoratori nato a Genova nel giorno di ferragosto del 1892.
E’ la storia di una tensione dualista, dai risvolti spesso drammatici e insuperabilmente equivoci, che attraversa oltre un secolo di cronache politiche nostrane. Dalla discrasìa tra anarchici e marxisti sul finire dell’800, a quella tra gradualisti e riformisti nel quindicennio che precede la Grande Guerra, o alle schermaglie tra interventisti e neutralisti durante la medesima. Tensione che, da tendenzialmente endogena nei primordi, arriva a sgretolare il dogma dell’unità d’azione della Classe Lavoratrice con lo scisma livornese, fino a raggiungere il suo limite apicale nel duello a sinistra, aspro e con poche esclusioni di colpi, dell’ultimo quarto del secolo passato.
Una storia per certi versi anomala, ovviamente, quella del Partito Socialista Italiano; in armonia con la cornice costituita dal suo Paese, la cui propensione – oggi come ieri – resta quella di porsi come l’elemento distonico e dissonante all’interno del proprio quadro europeo di riferimento geografico e culturale.
Detta singolarità, però, ha degli eventi individuabili come cause scatenanti, ed ha una data, simbolica, di cui è appena trascorso il sessantesimo anniversario. E’ il 28 dicembre del 1947, infatti, quando viene ufficializzata la nascita di quel Fronte Democratico Popolare che chiude la stagione segnata dalla rottura tra Saragat e Nenni.
Con tutti i distinguo del caso, la fenomenologia socialista del cinquantennio antecedente, difatti, lambisce una serie di tappe sostanzialmente coincidenti con le analoghe esperienze del resto d’occidente: dalle precondizioni per la nascita di un partito marxista, ai già citati dualismi pre e durante la prima guerra mondiale, fino allo iato causato dall’adesione o meno alle tesi di Lenin e alla separazione dei riformisti dai rivoluzionari filo-sovietici.
La scelta frontista, sia pure effettuata in un periodo di “sincronizzazione” – per usare lo stesso termine utilizzato da Saragat – tra i partiti socialisti e comunisti d’Europa caratteristico della fase intercorsa i trattati di pace della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, spezza totalmente il concerto tra le forze di sinistra del vecchio continente: in nessun altro paese, infatti, viene posta in essere una simile fattispecie. Altresì se ne guarderanno bene anche Gonzales in Spagna e Soares in Portogallo, alla caduta degli ultimi autoritarismi europei nella penisola iberica alla metà degli anni 70.
L’errore di Nenni è commisurabile tanto in termini di statistica elettorale quanto sotto il punto di vista socio-culturale. La politica dei fronti popolari era stata una misura dettata dalla necessità, nella fase più acuta dello scontro continentale tra fascismo e antifascismo (1919-1945) delineatasi negli anni ’30, ma, nel contempo, risultava assolutamente antitetica e inconsistente innanzi al nuovo scenario di guerra civile tra comunismo e anticomunismo (1946-1989). La particolare collocazione geopolitica dell’Italia, poi, unita al trauma del ventennio fascista e del ruolo del regime nella seconda guerra mondiale, rendeva la scelta della lista unica col Pci un vero e proprio suicidio politico: nella Nazione confinante con la cortina di ferro, uscita da due decadi di dittatura, il rendere indistinguibile una forza riformista, e perciò percepita come “moderata”, dall’omologa formazione filo-sovietica, significa spostare irrimediabilmente gli equilibri appannaggio di quest’ultima.
E così è stato. Quell’esiguo, ma significativo vantaggio, conseguito nelle elezioni dell’Assemblea Costituente, si trasformò, a partire da allora e nell’arco di tutta la “prima Repubblica” in un rapporto di due, talvolta tre, elettori a uno, a svantaggio dei socialisti.
Sotto il profilo della mera ingegneria elettorale, poi, l’errore fu duplice, e contingente quanto strutturale: da un lato Nenni interpretò i risultati delle amministrative del ’46/’47 come un ridimensionamento della Dc con conseguente crescita della sinistra, dall’altro ebbe a ragionare sui suffragi di Psi e Pci in termini meramente numerici tanto da ritenere che, nonostante la scissione di Palazzo Barberini, la risultante del Fronte sarebbe stata la somma dei due elettorati.
A partire da tale fallimento, il Psi sarà costretto, per tutto il quarantennio successivo, ad un’improbabile rincorsa in salita nei confronti dell’estrema sinistra, talvolta reiterando dall’interno le condizioni di sudditanza psicologica verso il Pci. Non è un caso che il massimo divario, in termini elettorali, tra i due partiti, coincida con la politica “degli equilibri più avanzati”, teorizzata da De Martino e che trovava, nei Demartiniani ancora più ortodossi dello stesso ex leader socialista, l’eventualità di concepire il Psi come una struttura biodegradabile, la cui esistenza sarebbe dipesa dalla maturazione del partito comunista.
L’attualità, invece, mostra uno scenario ancora più confuso. L’assetto politico italiano è, forse, all’apogeo dell’anomalia. Se, con tutti gli squilibri già descritti, la somma dei suffragi socialisti e comunisti non è mai scesa sotto al 37% tra il 1946 e il 1989, ben diversa è la circostanza attuale, egemonizzata da un Partito Democratico tendenzialmente neo-centrista, conservatore in tema di laicità, e, sulla carta, lontano dal superare il 35% delle preferenze elettorali, il cui interlocutore principale – in termini di cifre – è una confederazione eterogenea nascente nell’improbabile incontro tra dissidenti del medesimo partito e aficionados del Pci nonostante il crollo del muro.
Il posizionare una forza autenticamente riformista, laica ed europea, in uno scenario simile, è un tentativo tanto assurdo – nell’accezione originaria del termine, senza alcunchè di dispregiativo – quanto necessario. Perchè la singolarità della situazione politico-istituzionale dell’Italia, di fatto, è la questione socialista: un partito con un peso minore degli analoghi occidentali nel periodo ’46-’89, e che rischia l’emarginazione totale, in una fase, quella posteriore alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in cui l’unica alternativa valida al conservatorismo e alle derive confessionaliste è, in tutto il continente, costituita dal socialismo, nella sua forma attuale: liberale, laica e democratica.