Chiesa e Scienza, il pensiero di Feyerabend e la crisi della ragione

Lo so che questa non è l’ora di filosofia, ma la mia intenzione è spiegare in modo esauriente,tutto ciò che ruota attorno ai dissapori tra l’attuale Papa Raitzinger e il mondo Scientifico, i quali si protraggono ormai da lungo tempo e che si sono solo ravvivati nell’Affaire Sapienza. Il problema si ripropose fortemente negli ultimi anni di pontificato di Papa Wojtyla; anni di forte contrasto a causa dell’azione del Cardinale Joseph Ratzinger – il quale era stato nominato proprio da Papa Giovanni Paolo II come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ( diciamo un ruolo non secondario per la Chiesa Cattolica dato che tale istituto è l’erede, in chiave moderna, dell’ex Santo Uffizio) – il quale ha cercato di riportare una ventata conservatrice alle istituzioni cattoliche, avviando un’opera di demolizione sistematica della cultura laica europea, frutto dell’emancipazione della ragione dal braccio della ‘fede’.

La diatriba sta riportando alla luce i pensieri filosofici e le teorie epistemologiche anarchiche di Feyerabend. Il personaggio in questione – morto nel 1994 – è stato preso come spunto di riflessione da Papa Benedetto XVI in una conferenza del febbraio 1990, proprio alla Sapienza di Roma. La citazione del Papa è tratta da un capitolo ( che non compare nell’edizione italiana) di uno scritto del cosmopolita filosofo austriaco, che s’intitola Contro il Metodo del 1975. La frase incriminata di Feyerabend è questa: “La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione”. Cominciamo ad intravedere le prime avvisaglie anti-sistema – anzi di non omologazione al sistema – di Feyerabend, il quale vuole intendere il processo a Galileo, come una condanna da parte della Chiesa per motivi di ‘ragion di Stato’, ed è stato poi successivamente riabilitato sempre per ‘ragion di Stato’ da un’autorità non religiosa. La fede o la ragione o anche solo morale, non centrano proprio nulla per il filosofo: tutto quello che contava e che interessava alle autorità del tempo, era mantenere il controllo culturale e con questo difendere e avere anche il controllo politico. Sicuramente è una bella affermazione da parte del filosofo, molto acuta e ben congeniata, frutto dello studio del XVII secolo e delle sue conseguenze; insomma il secolo della Scienza, visto come svolta non solo culturale ma soprattutto politica. Feyerabend infatti continua dicendo che la laicità della scienza non centra nulla, sia la Ragione che la religione non centrano nulla nell’Affaire Galileo, perché l’oggetto del contendere – che era il nuovo ‘metodo scientifico – non era conosciuto ai tempi dello scienziato, soprattutto perché fu lui ad inventarlo e visto anche che tutti gli altri studiosi erano omologati al sistema tolemaico, cioè il sistema della culturale dominante. prendeva di mira il metodo galileiano perché non riconosceva alla rivoluzione scientifica un valore oggettivo. Feyerabend era convinto inoltre che si fosse imposto, questo ‘nuovo metodo’, non per la sua razionalità, ma per via delle “macchinazioni propagandistiche di Galileo”. Sempre a suo dire, Galileo non si basa su evidenze empiriche o sperimentazioni certe, ma “inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici”.
Perciò il filosofo austriaco mostra comprensione per il cardinale Roberto Bellarmino, che era l’accusatore di Galileo, il quale sosteneva il bisogno di considerare l’eliocentrismo solo una congettura. Le parole del Cardinale dovevano essere lette come un messaggio politico, secondo Feyerabend, soprattutto per non compromettere ‘la pace sociale’, con teorie capaci di turbare la cultura dominante che era retta dalla fede dei semplici.

Sembra comunque riduttivo attenerci solamente all’interpretazione letterale di questa frase, ma si può ben capire tutto questo se lo si contestualizza nel pensiero epistemologico anarchico di Feyerabend. Per il filosofo: “Un anarchico è come un agente segreto che giochi la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione (della Verità, dell’Onestà, della Giustizia ecc.). […] L’anarchismo epistemologico differisce sia dallo scetticismo sia dall’anarchismo politico (religioso). Mentre lo scettico considera ogni opinione ugualmente buona, o ugualmente cattiva, o desiste completamente dal dare tali giudizi, l’anarchico epistemologico non ha alcuno scrupolo a difendere anche l’asserzione più trita o più mostruosa”. Si può allora comprendere il pensiero anti-sistemico di cui parlavo prima, volto a distruggere le brutture della ragione –con la costruzione di falsi miti – che fanno ristagnare la cultura contemporanea. Il filosofo inoltre scrisse a proposito della Scienza, che la considerava“un ente sostanzialmente anarchico, ossessionato dal suo mito e che dichiara di essere vero al di là della sua capacità reale”. Egli era indignato riguardo all’atteggiamento ‘snobbista’ di molti scienziati verso le tradizioni alternative, come l’astrologia e la stregoneria. Ad esempio, gli scienziati avevano opinioni negative sull’efficacia della danza della pioggia, perché secondo loro non sono giustificate dalla ricerca scientifica. L’indignazione quindi era rivolta al carattere elitario dello scienziato e quindi il comportamento prevalentemente negativo di tutti verso tali fenomeni. Nella sua idea, la Scienza era diventata un’ideologia repressiva – una grande forza stagnante – sebbene avesse cominciato come un movimento di liberazione e di emancipazione. La negatività e lo scetticismo di Feyerabend nei confronti delle ideologie, lo porta a dire che “la società si dovesse proteggere da un’eccessiva influenza della scienza, così come si protegge da altre ideologie”. Feyerabend non concepisce che la scienza abbia un ruolo privilegiato nella società occidentale, perché non lo merita. I vari punti di vista scientifici, secondo il filosofo, non nascono dall’uso di un metodo universale che garantisca conclusioni di alta qualità e diano ad essi un ‘bollino’ di verità assoluta tout cour. Da questo si evince che la ‘fantomatica’ superiorità scientifica, accertata da rivendicazioni e giustificazioni empiriche, non si possa valutare come superiore ad altre ideologie come ad esempio le religioni. In base a questo, Feyerabend difese strenuamente l’idea che la Scienza dovesse essere separata dallo Stato, con un procedimento identico alla secolarizzazione di stampo occidentale, tale che ha creato la separazione tra la Religione e lo Stato nella moderna società . Egli immaginò una ’società libera’ in cui “tutte le tradizioni hanno uguali diritti e hanno uguale accesso ai centri del potere”; una sorta di società democratica e laica, non solo dalle religioni ma anche dall’ideologia scientifica. Secondo Feyerabend, la Scienza dovrebbe essere coinvolta in un progetto democratico – anche di controllo – in cui “non solo gli oggetti delle ricerche scientifiche dovrebbero essere determinati da elezioni popolari, ma anche le assunzioni e le conclusioni dovrebbero essere supervisionate da un comitato di persone non specializzate”. Per Feyerabend “i princìpi democratici, quali sono praticati oggi, sono incompatibili con l’esistenza, lo sviluppo, la crescita indisturbata di culture particolari. Una società razional-liberale (-marxista) non può contenere una cultura nera nel pieno senso del termine. Né può contenere una cultura ebraica nel pieno senso del termine. Né può contenere una cultura medievale nel pieno senso del termine. Essa può tollerare tali culture solo come propaggini secondarie di una struttura fondamentale che è a sua volta un’empia alleanza di scienza, razionalismo (e capitalismo)”.

Avendo spiegato in maniera molto sintetica il pensiero del filosofo austriaco, rimane semplice collegare ciò con quanto detto nel 1990 da Ratzinger. Appare molto evidente che il Papa non sposi in modo vincolante la visione di Feyerabend, né intende usarla strumentalmente per giustificare la condanna di Galileo. Raitzinger vuole affermare che nel tempo del Relativismo, anche la razionalità scientifica ha dei limiti; soprattutto questa non è depositaria di una verità assoluta, perché non tutto è verificabile empiricamente e quindi il metodo scientifico è fallace perché sorretto da basi fragili. Il Papa con la sua citazione infatti, si inserisce in un dibattito filosofico, noto sin dagli anni settanta, della ‘crisi della ragione’ e infatti all’inizio degli anni novanta, la Società Filosofica Italiana ha dedicato su questo tema il suo Congresso Nazionale, dove mi preme sottolineare alcune parole di Enrico Berti, il quale fu incaricato di “di illustrare ‘la complessità della ragione’, intendendo con ciò implicitamente dire che la ragione non è morta, ma è divenuta, semmai, più ‘complessa’. Nel convegno si discusse questa tesi e si tentò di spiegare che la crisi della ragione ha subito nel tempo varie crisi, la prima è stata definita come una crisi negli ambiti della ‘razionalità scientifico-teconologica’, o ‘ragione classica’ a vantaggio nel periodo del ’68 – con l’effetto della contestazione sessantottesca – di una nuova forma di razionalità. La diffusione degli scritti della Scuola di Francoforte poi hanno messo in luce “quella che allora veniva chiamata la razionalità dialettica, con riferimento esclusivo al significato moderno, cioè hegeliano-marxiano, di quest’ultimo termine”. Questa forma di razionalità, che ha avuto molto successo nel riproporre le teorie di Marx in chiave moderna, ha subito un altro duro colpo negli anni ottanta, entrando in crisi profonda “non tanto per il crollo clamoroso del muro di Berlino”- anche se la contrapposizione dei blocchi avvalorava significativamente questo tipo di ‘ragione’ – ma “ quanto per le difficoltà interne alla dialettica hegeliano-marxiana, messe in luce da tempo nell’ambito della cultura occidentale, sia non marxista che marxista”. Quindi si può intuire che questa forma di razionalità era affetta da una tremenda sindrome di desuetudine, comprovata dal cambiamento socio-politico in corso. Dopo queste sue crisi della ragione, (In seguito alla crisi sia della ragione scientifica moderna che della ragione dialettica), gli anni ottanta hanno visto “da un lato la rinascita di varie forme di irrazionalismo e dall’altro lato la presa di coscienza della «complessità» del conoscere, quindi anche della ragione”. A questo punto mi interessa il discorso di Berti poiché fa capire la posizione di Feyerabend e la dinamica che ha lasciato molto dubbiosa la comunità scientifica nei confronti del Papa. Secondo Berti “entrambi i fenomeni hanno mostrato che la crisi della ragione era stata determinata dalla sua eccessiva semplificazione, cioè dalla sua riduzione ad una o due forme particolari di razionalità, modellate esclusivamente sulla scienza (anche la dialettica hegeliano-marxiana pretendeva, infatti alla «scientificità»), mentre la ragione risultava essere molto più complessa, cioè articolata in molteplici forme, duttile, adattabile alle infinite pieghe della realtà”.

Proprio quindi il mondo della ricerca relativistica, ha aperto uno spiraglio alle speranza per le alte gerarchie ecclesiastiche (io parlo per l’Italia) di volgere una situazione culturale di debolezza, con la forza del dogma. Per Berti non c’è dubbio, “un contributo a questa consapevolezza è stato portato, indubbiamente, dalla serie di ricerche che vanno dalla sociologia di Morin alla psicologia di Piaget, dall’epistemologia di Kuhn e Feyerabend alla fisica di Prigogine e Stengers, dallo studio “sull’intelligenza artificiale” di Hofstadter al pensiero di Varela, e che sono state complessivamente indicate come “sfida della complessità”. Tutto questo (Buttiglione l’ha apertamente espresso a Porta a Porta con fare prepotente) ha voluto significare che “la scienza contemporanea ha definitivamente abbandonato l’ideale cartesiano dell’onniscienza o della scienza perfetta, basata su un luogo di osservazione fondamentale, privilegiato, oggettivo, ed ha ormai riconosciuto la molteplicità irriducibile dei punti di vista”. Il problema è che avendo riconosciuto laicamente una debolezza, senza nascondersi dietro a nulla, si è corso il rischio di rafforzare chi non ha mai riconosciuto nessun altro punto di vista da secoli, anzi difende ancora il proprio particolarismo, dietro i dogmi e la saccenza della verità assoluta, come una piccola legione romana difendeva il proprio accampamento dai barbari.