[Per far chiarezza] Cos’è la vittoria elettorale?

articolo di Carlo D’Ippoliti

Vittoria

Secondo molti commentatori, PD e PDL hanno assunto caratteristiche da “partito maggioritario“, nel senso del sistema elettorale: con una specie di bulimia di voti, allo scopo di diventare più grandi possibili, hanno caricato dentro soggetti molto etereogenei, che finiscono per costituire correnti interne al partito.
Il problema delle correnti, in un sistema proporzionale come il nostro (seppur mitigato dal premio di maggioranza) è che tendono a rendere un partito “strabico”, oscillante tra posizioni anche molto distanti, e in casi estremi producono fratture e ulteriore frammentazione. Per di più, una frammentazione “cattiva” rispetto a quella propria di un sistema proporzionale, in quanto molto dipendente dagli accidenti della storia, e in particolare una frammentazione soggetta a “duplicazioni”, nel senso dell’esistenza di partiti su posizioni sostanzialmente analoghe, distinti solo a causa della loro differente origine.

A mio parere, le correnti in PD e PDL non sono troppe ma troppo poche: a causa del loro scarso numero e dell’alta visibilità, sono inevitabilmente portate ad estremizzare le rispettive posizioni, in una sorta di competizione interna. Inoltre, le loro notevoli dimensioni rendono concreto il rischio di scissione in caso di fratture pronunciate.
Ma supponiamo pure che PD e PDL possano essere considerati “partiti proporzionali”, con una posizione univoca sulle singole questioni politiche. Possiamo allora dividere le rispettive coalizioni elettorali (con IdV da un lato e con Lega Nord-Padania e Movimento per le Autonomie dall’altro), sulla base di una semplice discriminante: quelli che desiderano o non osteggiano una Grande Coalizione per il Governo della prossima Legislatura, e quelli che invece sono indisponibili a questa soluzione.
Questa distinzione è abbastanza importante per interpretare il significato del neologismo giuridico della “vittoria” delle elezioni.

Cosa significa infatti vincere le elezioni? Di sicuro non diventare Presidente del Consiglio dei Ministri (prima interpretazione): nonostante il richiamo della legge elettorale, che impone una “candidatura” a tale ruolo, la legge ordinaria non può modificare la Costituzione, e dunque la nomina del capo del Governo spetta ancora al Presidente della Repubblica, che non è tenuto a scegliere chi “vince” le elezioni, ma chi può ottenere il voto di fiducia di una maggioranza parlamentare. Di sicuro, non si tratta necessariamente di un esponente del partito di maggioranza relativa.
Dunque “vincere” significa ottenere una maggioranza parlamentare (seconda interpretazione)? In tal caso si potrebbero ben definire “inutili” i voti a quei partiti che ragionevolmente da questo obiettivo sono tagliati fuori, ovvero tutti quelli non apparentati alle citate coalizioni.
In realtà, a causa della determinazione regionale del premio di maggioranza al Senato, il raggiungimento di una maggioranza parlamentare dipende dai risultati elettorali solo vagamente, e in maniera tutt’altro che lineare: certo non dipende dalla “vittoria” alle elezioni, se la intendiamo nel senso di prendere più voti e divenire il partito di maggioranza relativa (terza interpretazione).

Ad esempio, dati alla mano si dimostra che la ventilata veltroniana “rimonta” di qualche settimana fa, della coalizione PD-IdV rispetto alla coalizione PDL-LNP-MpA, avrebbe il risultato di consolidare la maggioranza al Senato della coalizione capitanata da Berlusconi.
Insomma, l’obiettivo dell’elettore dovrebbe essere la vittoria parlamentare, piuttosto che quella elettorale? Allora sarebbe abbastanza “inutile” anche il voto alla coalizione PD-IdV, che ragionevolmente da questo obiettivo è tagliata fuori. Fortunatamente i leader delle due coalizioni maggiori ci risparmiano dall’idea che rimane solo un’alternativa di voto, una specie di referendum tra l’astensione e il voto a Berlusconi.
Infatti, la loro interpretazione della “vittoria elettorale” (quarta definizione) è la conta dei voti, esclusivamente tra i due maggiori partiti (senza neanche il riferimento agli alleati di coalizione), con l’obiettivo di prenderne almeno uno in più dell’altro. Questa definizione è parallela al dibattito politico-elettorale, condotto come se non esistessero altri partiti in corsa, il cui risultato sarà invece determinante proprio per il calcolo dei premi di maggioranza regionali, e dunque della (eventuale) “vittoria parlamentare” di una delle due coalizioni.

In realtà, l’oblio sui partiti minori non ha solo lo scopo di oscurare la visibilità mediatica di competitori pericolosi, ma evita ai due maggiori partiti e alle due maggiori coalizioni il disturbo di affrontare il nodo sul loro futuro, possibile o desiderato, comportamento parlamentare. Sostanzialmente, evita che le scissioni tra correnti e tra partiti coalizzati avvengano prima ancora del voto.
Anche con quest’ultima definizione della “vittoria elettorale”, cioè verificare chi prende più voti tra PD e PDL, la tesi della Grande Coalizione implica a rigore che ogni voto sia inutile, in quanto il prossimo Governo sarà comunque costituito da PD-PDL e qualche stampella.
Per fortuna, siamo liberali, e a dispetto dei maggiori mass-media riteniamo che l’interpretazione della formula “vittoria elettorale” sia libera: ogni partito considererà legittimamente una “vittoria” il raggiungimento dell’obiettivo elettorale che si è autonomamente dato: gli elettori possono utilmente contribuire al raggiungimento dell’obiettivo che preferiscono, retorica sulla “vittoria” possibile solo a PD o PDL permettendo.