Colletti legge Rosselli

Un maestro, Lucio Colletti, che rilegge un maestro, Carlo Rosselli. Una lezione al quadrato. Oggetto: il socialismo liberale.

Tanto Colletti, quanto Rosselli sono stati dimenticati in fretta dalla Sinistra italiana, che ha preferito non ascoltare le loro parole di critica severa, perdendo quindi anche il senso della loro proposta, che oggi suona ancora profondamente attuale.

Questo scritto di Lucio Colletti risale ad un periodo particolare della vita politica italiana: un 1987 in cui si chiudeva l’esperienza del secondo governo Craxi, che aveva visto il premier socialista imprimere al suo partito prima e al paese poi, la forte impronta di un socialismo di governo, moderno e fortemente riformista (anche se, in scia con i governi di allora, carente sul fronte del contenimento della spesa pubblica).

Il colpo più poderoso che conduceva alla definitiva rottura col marxismo risaliva al 1978, in forma di un articolo pubblicato su l’Espresso e intitolato (vedi te i casi della storia) “Il Vangelo socialista”. Portava la firma proprio di Bettino Craxi, in calce ad un articolo elaborato con Luciano Pellicani.

In realtà la rottura era già stata annunciata da un altro grande maestro, quel Luciano Cafagna che nel 1974 scrisse su Mondoperaio un articolo dedicato al Sistema sovietico tra Stalin e Breznev. Erano i prodromi di quella guerra culturale (quella sì, degna di questo nome) che proprio dalle pagine di Mondoperaio fu sferrata da intellettuali socialisti, più o meno devianti, nei confronti del Pci di Berlinguer, che non trovò altro che rifugiarsi nell’eurocomunismo e nella “questione morale”. Una guerra culturale serrata, forte e vibrante, dai colpi della quale non si salvò nemmeno Gramsci. Cafagna, Salvadori, Bobbio, Pellicani, Galli della Loggia alcuni dei nomi dei protagonisti di allora.

Ma se fra i “chierici” di Mondoperaio vi erano ancora alcuni che intendevano aggiornare il marxismo, piuttosto che abbandonarlo, Colletti, nel suo articolo è scientificamente drastico. Così come drastico era stato Carlo Rosselli sessant’anni prima. Drastico nella critica e nella risposta: “pensare insieme liberalismo e socialismo”.
Proprio con queste parole, un altro “maestro”, a noi più vicino cronologicamente parlando, ebbe a titolare un suo articolo dedicato alla Rosa nel Pugno. Si tratta di Biagio de Giovanni. Per farvi un ulteriore regalo vi alleghiamo l’articolo in questione, pubblicato il 4 marzo 2006 sul quotidiano il Riformista.

Oggi, le parole di Rosselli, di Colletti e di De Giovanni, così come quelli di Pellicani, Cafagna e Craxi, devono essere patrimonio del Partito Socialista, ammesso che ci sia qualcuno disposto a farle proprie.


Il socialismo liberale di C. Rosselli
– di Lucio Colletti (in Pagine di Filosofia e Politica, Rizzoli, Milano, 1989)

Socialismo liberale fu scritto tra il 1928 e il 1929, circa sessant’anni fa (l’articolo risale al 1987, ndInoz). L’autore era allora confinato a Lipari. Il fascismo aveva vinto. Il movimento operaio, che a quel tempo era per la maggior parte il vecchio partito socialista, era stato irrimediabilmente sconfitto. Nella solitudine del confino, Rosselli tornò a riflettere non solo sulle ragioni della disfatta ma, soprattutto, sulle vie della rinascita futura. Ne nacque una sorta di Manifesto (anzi, a confronto del celebre scritto di Marx: un Antimanifesto), un breve saggio politico e intellettuale, che riprendeva e portava alle sue estreme conseguenze il “revisionismo” inaugurato trent’anni prima da BErnstein e poi variamente seguito da Sorel e da Croce.

Il filo del discorso di Rosselli non si discosta troppo da questa tradizione. Marx ha descritto il capitalismo “selvaggio” della grande Rivoluzione industriale della prima metà del secolo scorso (XIX secolo, Colletti scrive, come detto, nel 1987 ndInoz). Alla luce di quell’esperienza e anche dei suoi presupposti dottrinari, egli ha pronosticato un corso storico fatale e inarrestabile. Nell’arco del suo sviluppo, il capitalismo avrebbe, secondo Marx, scisso la società in due poli estremi: da una parte un pugno di magnati della ricchezza, dall’altra la stragrande maggioranza, proletarizzata e ridotta alla miseria. Ne sarebbe alla fine scaturito un inevitabile cozzo di queste due classi da risolvere con la violenza rivoluzionaria.

Il corso della storia, obietta Rosselli, ha invece smentito questa previsioni. In parte per l’azione dei sindacati e dei partiti operaio, in parte per l’esigenza propria di allargare il mercato interno e di promuovere i consumi di massa, il capitalismo ha imboccato un’altra strada. Alla luce soprattutto degli sviluppi dell’economia americana, Rosselli parla di una “razionalizzazione” del capitalismo. E, ancor prima del new Deal , intravede l’intervento dello Stato nell’economia per correggere gli squilibri del mercato e comporre almeno in parte le disuguaglianze.

Ne risulta l’esigenza, per un partito socialista che voglia rinnovarsi nel profondo e affrontare non solo la lotta contro il fascismo ma i compiti del dopo, di venir fuori dal marxismo. E tuttavia la liquidazione della vecchia dottrina è assai meno ingenerosa di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Una parte dell’opera di Marx (il materialismo storico, la sua sociologia delle classi), dice Rosselli, è ormai patrimonio comune della cultura moderna. E’ un capitolo di scienza sociale, che può essere condiviso da chiunque (conservatori compresi), proprio perché, in quanto scienza, non ha nulla a che vedere con i fini del socialismo. Tutta l’altra parte invece – la teoria dell’immiserimento assoluto, la scissione della società in due campi contrapposti, lo sbocco rivoluzionario inevitabile, la fatalità di tutto il processo: in breve, la visione apocalittica – è solo il frutto di una vecchia filosofia della storia che va lasciata cadere.

In parte, la polemica è condizionata dai caratteri del marxismo “positivistico” della II Internazionale (che è il marxismo che Rosselli ha soprattutto presente): dal suo determinismo, dalla sua rassegnazione fatalistica. In parte, invece, essa centra un bersaglio assai più importante.

Il socialismo, afferma Rosselli, deve liberarsi dall’illusione, indotta dal marxismo, di possedere il “segreto” della storia. La “società dell’avvenire” è un mito. Con Bernstein egli ripete che “il movimento è tutto, il fine nulla”. L’idea di una meta “ultima” è solo una chimera. La società perfetta non esisterà mai. Si tratta, piuttosto, di riformare e correggere costantemente quella che esiste. Ma qui si scopre l’importanza essenziale delle libertà civili e politiche, cioè di quello che Rosselli chiama “il metodo liberale o democratico”.

Ritenere che queste libertà siano solo “borghesi” è un errore. Un tempo, forse, è stato così. Ma, con l’avvento del suffragio universale e dei sindacati, molto è cambiato. Quelle che una volta potevano sembrare libertà di “classe”, o privilegi, si scoprono “regole del gioco” universali, indispensabili in ogni assetto civile, procedure che servono a regolare la convivenza umana sulla base del consenso. Formano, insomma, un “patto di civiltà”, in assenza del quale vi è il ritorno alla barbarie e alla violenza indiscriminata.

Il liberalismo, d’altra parte, per Rosselli come già per Croce, non si identifica con il liberismo economico. Né si limita a rivendicare soltanto le libertà cosiddette spirituali o politiche. Nell’interpretazione del nostro autore, il liberalismo sa bene che non meno indispensabili sono la libertà dal bisogno e la giustizia sociale. Non sorprende allora che, riconosciuto in questa sua capacità espansiva, il liberalismo si prospetti a Rosselli come quella forza ideale, la cui pratica realizzazione appare affidata al socialismo. Se infatti della libertà è che essa divenga patrimonio reale e di tutti, cioè emancipazione effettiva, nessuna forza storica potrà assicurarne l’attuazione progressiva meglio del socialismo.

E’ inutile dire quante e quali ostilità dové incontrare, fin dall’inizio, questa concezione che integrava tra loro due principi – il socialista e il liberale – considerati tradizionalmente avversi l’uno all’altro. Quando Socialismo liberale apparve nel 1930 a Parigi in traduzione francese, Claudio Treves ne respinse subito le tesi non senza asprezza, in nome del “socialismo marxista”, lamentando in particolare l’abbandono, da parte di Rosselli, dell’idea del “collettivismo economico” e della “strategia classista”. I comunisti, dal canto loro, furono più drastici. Togliatti, che ne scrisse su “Stato Operaio”, affermò senza messi termini che “il libro di Rosselli si collega[va] in modo diretto alla letteratura politica fascista”. E non mancò neppure, nel dopoguerra, la critica di Benedetto Croce, che vide in Socialismo liberale solo del sincretismo, cioè l’indebita giustapposizione di concetti inconciliabili fra loro.

Ciò che sfuggiva ai critici era invece proprio il punto di forza del libro. Essi vi videro un puro prodotto del “dottrinarismo”, mentre era vero che Rosselli aveva alle spalle buoni studi di economia. Egli aveva letto, tra l’altro, Marshall e Pareto, Pigou e Keynes (per non parlare delle influenza del laburismo inglese). La sua sintesi non era affatto libresca. Nasceva, piuttosto, dalla percezione (che in quegli anni ben pochi ebbero) che il “liberismo puro” aveva fatto il suo tempo e che il nuovo idolo l’“economia pianificata”, che allora si incominciava ad adorare, sarebbe stato tutt’altro che un balsamo miracoloso.

Avendo lasciato alle sue spalle entrambi questi miti, la sintesi di Rosselli soffrì, semmai, di essere in forte anticipo sui tempi. La prova è nel fatto che solo oggi sembrano ricorrere le circostanze perché il suo libro possa essere apprezzato appieno e sottratto finalmente all’oblìo. E che solo oggi, seppure tra il fastidio di non pochi, si è preso a parlare per la prima volta di “Lib-Lab”, cioè dell’esigenza di pensare insieme liberalismo e socialismo.