E infine arrivò anche il giorno della Binetti.
Nell’anno XIII di una fase transitoria, talvolta denominata – erroneamente, invero – Seconda Repubblica, può anche accadere che l’esecutivo rischi la caduta per il non expedit di chi ha aderito, sin dalla prima ora, ad un progetto partitico il cui scopo principale di medio termine dovrebbe essere proprio la salvaguardia del medesimo esecutivo. Ma, per un’entusiasta della fusione di oggi che dissente, c’è un sincero teorico di quella di ieri, che interviene e sventa (rimanda?) il patatrac.
Nulla di imprevedibile quindi, e nulla che passerà alla storia. Questione di merito inclusa. Ovvero, l’opportunità con cui il richiamo ad una norma pattizia comunitaria a carattere anti-discriminatorio concernente le tendenze sessuali in una legge dello Stato Italiano, debba immediatamente trasformarsi in un problema di apprezzamento del fenomeno religioso. La senatrice teodem, difatti, ha motivato la propria sfiducia sostanziale sulla conversione del decreto sulla sicurezza con due riferimenti ben precisi; testualmente, “valori e visione della famiglia”, ovvero “tematiche non eludibli con una scorciatoia, perchè sull’argomento il Paese è diviso”. Tralasciando l’opinione, piuttosto curiosa, secondo cui un riferimento alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo possa costituire oggetto di controversia in un Paese dell’Unione Europea, appare chiaro che lo strappo sia interamente riconducibile ad un’annosa questione, innominabile – non senza imbarazzi – per alcuni e ripetuta fino alla noia da altri: la laicità.
Le parole scelte dalla ex-DL indicano, nemmeno troppo sottilmente, quanto quei “valori” e quella “visione della famiglia” rappresentino variabili dipendenti unicamente da una personalissima ideologia confessiale e ridotte esclusivamente a questione di libertà religiosa. Anche a discapito della direzione di marcia intrapresa dell’Unione Europea, e dall’Italia con essa.
A ben vedere, tra l’altro, sul tema, tanto Bruxelles, quanto il legislatore nostrano, sono ben lontani dal muoversi in un’ottica indifferentista o separazionista. Il fenomeno religioso, infatti, non è assolutamente considerato un fatto privato, ma trova accoglimento in un duplice impegno, dispiegato su tutte le articolazioni e i livelli del potere civile: la garanzia di neutralità e imparzialità e nel contempo quella di intervento con finalità attuative.
Limitandoci all’esempio comunitario, la tutela della libertà religiosa trova accoglimento sin dal suo Trattato costitutivo, svolgendo un ruolo sussidiario rispetto a quello già posto in essere dai singoli Stati che, a ben vedere, ancora oggi sono tutti, nessuno escluso, profondamente confessionisti, anche solo nell’impianto formale delle proprie istituzioni. Dalla Costituzione spiccatamente luterana della Danimarca, alla previsione che il Sovrano Britannico sia anche a capo della Chiesa Nazionale, passando per il confessionismo strisciante della radicalissima Francia, e per la duplice blindatura italiana in cui, evidentemente, la Costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi nonchè la previsione delle “Intese” non costituivano una garanzia sufficiente, e si è preferita l’aggiunta, quasi tautologica, degli articoli 19 e 20.
In un contesto di questo tipo la comunità Europea, per mezzo di strumenti giuridici, quanto con decisioni politiche, ha dato vita ad un intervento indirizzato ad un apprezzamento attivo della realtà religiosa, in tutta la sua multiformità. L’Italia, usualmente, ha recepito nel proprio ordinamento, in forma diretta ed indiretta, ogni previsione anti-discriminatoria. Dall’obbligo del rispetto della libertà di culto del Trattato di pace del 1947, a quello di Amsterdam del 1997, che, tra l’altro, ha stabilito che “L’Unione Europea rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le Chiese, le associazioni o comunità religiose degli stati membri”.
Un simile indirizzo, ormai sessantennale, altro non è che una concezione laica del consesso civile, a livello individuale e collettivo; e, tanto in parlamento quanto nell’opinione pubblica, una clausola antidiscriminatoria non è mai stata oggetto di spaccatura e non ha mai trovato nessun “non possumus”, men che meno coperto dalla foglia di fico dell’opportunità o dell’eludibilità della tematica.
Un precedente, quello del 6 dicembre, che delinea una buffa condizione di non reciprocità, e getta le premesse per un’ennesima, eventuale, ed artefatta contrapposizione con una più che mai fantomatica ala “laicista”.
Cronache di un partito Democratico, in un paese normale.