Rai, l’unico servizio pubblico è aprire al mercato

Articolo di Andrea D’Uva

Non passa giorno senza che la telenovela Rai si arricchisca di una nuovo capitolo. Dopo la rimozione del consigliere Petroni, nominato dal Tesoro in era berlusconiana, e la sua sostituzione con persona più gradita all’attuale maggioranza politica, dopo la sfiducia al Presidente Petruccioli votata dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza, è esplosa la bomba delle intercettazioni telefoniche tra dirigenti Rai e Mediaset i quali si appattavano su come far passare le notizie politicamente più scomode. Le polemiche chiamano in causa il problema più generale dell’informazione e dell’assetto radiotelevisivo in Italia. Il duopolio televisivo formatosi alla fine degli anni ’80 per merito del Berlusconi imprenditore il quale, con il possesso di tre reti private ha aperto il mercato della raccolta pubblicitaria fino ad allora dominato dalla Rai. Tale fenomeno ha gradualmente spinto la televisione pubblica ad inseguire quella commerciale sul terreno della corsa all’audience con progressivo abbandono del ruolo di servizio pubblico. Poi la discesa in campo a metà degli anni ‘90 con il conflitto d’interessi tra il Berlusconi politico e quello imprenditore dei media ha bloccato per oltre un decennio il dibattito su posizioni propagandistiche. Da sinistra si gridava allo scandalo per la concentrazione nelle mani di un solo soggetto, per di più protagonista dell’agone politico, dei mezzi d’informazione la destra rispondeva che si attaccava il diritto all’impresa e si tentava l’esproprio proletario della proprietà privata. Né gli uni né gli altri, quando hanno avuto responsabilità di governo hanno affrontato il problema alla radice. Il controllo della televisione pubblica da parte della politica è stata una tentazione troppo forte; d’altronde si è sempre detto che la Rai vale più di un ministero. Nonostante un referendum (il cui merito va ascritto ai Radicali) votato dai cittadini italiani i quali, stanchi di pagare un canone sempre più esoso a fronte di una programmazione televisiva eufemisticamente mediocre, si dichiaravano a favore della privatizzazione della Rai la politica si è limitata a modificare i criteri di nomina dei vertici della televisione pubblica. Come in matematica l’ordine dei fattori non ha cambiato il risultato.

La soluzione potrebbe venire dall’applicazione di una norma del libero mercato: l’antitrust.
Porre cioè un limite alla concentrazione nelle mani di un solo soggetto, sia esso pubblico o privato, all’interno di un settore commerciale. Sarebbe una politica coraggiosa e lungimirante quella che sposti il dibattito sulle regole generali della concorrenza piuttosto che sul controllo contingente dei mezzi d’informazione. Mettere sul mercato cioè vendere, una rete Rai ed imporre a Mediaset di cedere almeno un canale. L’esperienza è già fatta in Francia con la cessione del primo canale pubblico all’imprenditoria privata. L’apertura del mercato televisivo (e pubblicitario) ad altri soggetti imprenditoriali alimenterebbe la speranza che la concorrenza innalzi la qualità del prodotto finale, riducendo allo stesso tempo il peso della politica sulla televisione pubblica. Una riforma che permetterebbe alla Rai di tornare a fare servizio pubblico di informazione, formazione ed approfondimento, sul modello della BBC inglese, limitando la pubblicità e abbattendo il canone ovvero superando questa modalità di finanziamento tanto invisa ai cittadini, almeno a quelli onesti che lo pagano. Se una simile riforma fosse approntata si sarebbe superato d’un colpo anni di sterili dibattiti sul conflitto d’interessi, sulle nomine Rai, sulla libera informazione o almeno si risparmierebbe al servizio pubblico una parte nella commedia della tv-spazzatura. Dalla politica vengono segnali poco incoraggianti, quello della privatizzazione della Rai è uno spauracchio che molti agitano nella speranza che mai arrivi, consapevoli del fatto che il controllo dell’informazione permette di supplire alle manchevolezze di una casta politica inconcludente e mossa da interessi particolari. A noi rimane la libertà di avanzare proposte coraggiose, nella speranza che prima o poi qualcuno voglia guardare la luna e non il solito dito.