Articolo di Mario Gregori (Università di Udine)
Con il SI’ di 99 paesi, il NO di altri 52 e 33 astenuti, alle 17,35 del 15 novembre 2007, la terza commissione delle Nazioni Unite ha approvato a New York un documento a favore della moratoria delle esecuzioni capitali nel mondo. Un tale voto è un civile gesto che intende stimolare la rimozione dalle legislazioni nazionali di un relitto barbarico, quale la pena di morte, o una masochistica rinuncia ad un poderoso strumento di dissuasione nei confronti di una criminalità sempre più aggressiva?
Apre il dibattito, nei giorni immediatamente successivi, il Wall Street Journal, che sposa apertamente la seconda tesi. Lo fa sulla scorta dei risultati di una ricerca di due studiosi della Pepperdine University (Malibu, CA), Roy Adler e Michel Summers. Essi hanno dimostrato come, in America, all’aumento delle condanne a morte eseguite si associa, negli anni ’90, una riduzione degli omicidi, mentre alla riduzione delle stesse, avviata a partire dal 2001, si accompagna un‘impennata dei crimini capitali.
Una spiegazione di tale relazione è quella proposta dal Nobel per l’Economia del 1992, Gary Becker, che riconduce questo caso ad uno schema più generale: più aumenta il costo di un’attività, più si riduce il numero di coloro che l’eseguono. Nello specifico, il costo da pagare per commettere un omicidio è più alto nel caso di una condanna alla pena capitale, che di una pena detentiva. Quando la prima è applicata, diminuisce, quindi, il numero di persone disposte, razionalmente, a commettere il gesto.
No sono tematiche originali, come non nuove sono anche le critiche a tali argomentazioni Esse sono riconducibili a tre piani: concettuale, teorico e quantitativo. Su un piano concettuale non è sempre corretto leggere un omicidio come una rational choice: lo riconosce la legge stessa, allorquando permette di applicare anche agli assassini la temporanea incapacità di intendere e di volere, che è l’opposto di una scelta razionale.
Su un piano teorico, la critica è che la pena di morte costituisce, nel caso specifico, un deterrente debole. La teoria del utilità soggettiva attesa, che sta alla base della rational choice, prevede che nel definire correttamente un costo vada tenuto conto non solo del suo ordine di grandezza, ma anche della probabilità di sostenerlo. Probabilità che negli Stati Uniti è particolarmente bassa: come ricordano i citati autori, viene eseguita una condanna capitale ogni 300 omicidi. Conseguentemente, esemplificando, con una probabilità del 3 per mille di essere condannati e perdere trent’anni di vita residua, il costo atteso della pena capitale (anni persi x probabilità) è uguale a circa trentatrè giorni! La pena è grave, ma il rischio è basso, per cui …il gioco può valere la candela. Paradossalmente, supponendo che anche i giorni in carcere siano giorni completamente perduti, è razionale argomentare che una condanna per omicidio a tre mesi che abbia il 50% delle possibilità di essere applicata abbia un effetto dissuasivo maggiore.
La terza argomentazione è di tipo quantitativo. Se il ragionamento di Becker fosse valido in ogni caso, ci aspetteremmo che nei paesi in cui non c’è l’effetto dissuasivo della pena capitale il numero degli omicidi risulti superiore a quello delle nazioni in cui tale pena è applicata. In altre parole, dovremmo riscontrare un numero relativo di omicidi maggiore in Europa di oltreoceano. Ma le cose non stanno così: la media europea è di 1,2 omicidi ogni centomila abitanti ( http://www.transcrime.unitn.it ), contro una media di 8,9 morti violenti, sempre ogni centomila abitanti, negli States (fonte Cbs).
Se poi considerassimo che il Brasile presenta un valore di 36 unità, i militari statunitensi reduci da teatri operativi un indicatore doppio della media nazionale, pari 17 (sempre Cbs), e la Lituania un valore pari a quello americano, potremmo concludere che una corretta analisi quantitativa delle cause degli omicidi dovrebbe tener conto del contesto economico, della familiarità con le armi e dello stress individuale. Diversamente una misurazione approssimata è solo una cattiva misura.
Che conclusioni trarre?
Tre. Una, le conclusioni di Adler e Summer sono contraddette da studi più ampi; due, più dissuasiva della gravità di una pena è la sua certezza; tre, la rinuncia alla pena di morte non è una resa alla violenza, ma una crescita di civiltà.