Dall’inizio della corrente legislatura ha ripreso quota il dibattito sulla tassazione delle rendite finanziarie e tutto lascia prevedere un crescendo’ di interventi e discussioni considerato che l’aumento della tassazione sulle rendite è stato indicato tra le varie misure che dovrebbero garantire le risorse necessarie a detassare i salari e restituire potere d’acquisto ai lavoratori, quelli dipendenti in particolare.
L’argomento è di quelli che ben si accordano con prese di posizione puramente ideologiche, demagogiche e con strumentalizzazioni e mistificazioni per fini politici. Non aiuta a fare chiarezza l’aspetto terminologico perché la parola ‘rendita’ evoca parassitismi di altre epoche contro i quali tante lotte sono state necessarie.
Parassitismi moderni, attuali, contro cui lottare non mancano, anzi, ma si tratta di una questione che esula dal tema delle “rendite finanziarie” termine con il quale designiamo gli interessi, i frutti, rivenienti dall’investimento del risparmio e i guadagni in conto capitale realizzati dalla compravendita di titoli, soprattutto quelli azionari.
L’attuale sistema prevede un’aliquota del 27% sugli interessi di conti correnti, libretti e certificati e un’altra del 12,5% che si applica sugli interessi rivenienti da titoli di stato ed altre obbligazioni, buoni postali, nonché dai dividendi delle azioni e dai cd. capital gain, cioè le plusvalenze, il guadagno in conto capitale, di tipo speculativo, scaturito dalla compravendita di titoli.
Per i normali cittadini e per i fondi comuni, (nettisti) queste aliquote operano a titolo di imposta, cioè gli interessi sono percepiti al netto delle ritenute fiscali e null’altro è dovuto.
Per le società e gli investitori esteri (lordisti) la tassazione opera a titolo di acconto. Non subiscono ritenute, ma includono l’importo degli interessi nelle loro dichiarazioni fiscali.
Nel corso del 2006 lo Stato ha incassato circa 8,9 miliardi di euro, con un netto incremento rispetto ai 6,9 miliardi del 2005. Come si vede dalla tabella che segue, tratta dal bollettino mensile delle entrate rilasciato dal ministero, il trend positivo è continuato anche nel 2007 visto che nei primi dieci mesi dell’anno vi è già un preconsuntivo di 9,6 miliardi.
Nel progetto di cui discutono le forze politiche è prevista la cd. ‘armonizzazione’ al livello europeo del 20%, cioè la riduzione (dal 27% ) dell’aliquota pagata sugli interessi dei conti correnti e l’aumento dal (12,5%) della tassazione oggi applicata a BOT, BTP, CCT, dividendi azionari e capital gain.
Sulla stampa stanno comparendo molte stime: quelle che riteniamo più attendibili (Sole24Ore) parlano di un effetto netto (aumenti meno riduzioni) di circa 2 miliardi di maggior introito per le casse statali.
Si tratta, come è evidente, di una somma largamente insufficiente a fornire un sollievo ‘tangibile’ alle buste paga: con quella cifra stiamo infatti discutendo di un cornetto e qualche cappuccino al mese.
Bisogna considerare che una riduzione di 3 punti delle tasse sul lavoro (per dare circa 450 euro l’anno in tasca a chi ha un reddito di 20.000 euro) costerebbe qualcosa come 8 miliardi di euro.
La manovra di “armonizzazione” della tassazione sulle rendite va dunque valutata aldilà delle sue dimensioni in termini di gettito.
Bisogna invece chiedersi se questa manovra risponde a obiettivi di redistribuzione e di equità sociale: le cose giuste vanno fatte, anche se sono insufficienti ed è compito della politica trovare le altre risorse.
Sarebbe troppo comodo trovare giustificazioni di natura ideologica, magari ricorrendo a qualche tesi antiquata da sinistra estrema. Per sostenere la nostra posizione favorevole all’armonizzazione, preferiamo piuttosto sostituire Giavazzi a Robin Hood per dimostrare che, aldilà di una visione del liberismo assiologicamente negativa (come direbbe Bobbio) che non ci appartiene, la misura in questione è nient’affatto illiberale.
L’autore, liberista, considera che:
a) il risparmio deriva dal reddito che è stato già tassato. Tassare le attività finanziarie significa dunque tassare due volte..
b) la doppia tassazione può però essere giustificata da un intento ‘redistributivo’
c) l’effetto redistributivo si ottiene sommando questi redditi a quelli da lavoro, in modo tale da applicare su di essi l’aliquota sul reddito complessivo e non la semplice imposta sostitutiva del 12,5%.
Infatti, l’aliquota fissa del 12,5% pagata sia da una famiglia di operai che posseggono qualche Bot sia dalla famiglia Agnelli fa in modo che la ‘redistribuzione’ avvenga al contrario, cioè dai poveri verso i ricchi.
Vista la difficoltà – o meglio, l’impopolarità – di rendere nominativi i titoli, Giavazzi conclude sostenendo che una aliquota del 20% almeno sarebbe più equa e che il ritrovato interesse per i titoli di Stato (dopo la crisi dei subprime) fa ritenere quello attuale come il momento giusto per la manovra.
A conclusioni un pochetto diverse, ma sempre favorevoli ad un riunificazione al 20% della tassazione, giungeva anche lo studio di Maria Cecilia Guerra (pubblicato l’anno scorso dal Sole24Ore) che aveva stimato in 456 euro all’anno la perdita del 10% delle famiglie a più alto reddito e in 6 euro all’anno la perdita per il decile delle famiglie più povere.
L’unificazione al 20% della tassazione di interessi, dividendi e plusvalenze (capital gain) è pertanto misura nient’affatto illiberale, semplifica la tassazione e, quel che più conta, corrisponde a un criterio di maggiore equità.
Tra le argomentazioni di coloro che si oppongono totalmente o parzialmente a questa misura, ve ne sono due, a mio avviso, che meritano qualche approfondimento.
Va seriamente considerata la posizione di chi sostiene l’inaccettabilità di un ulteriore aumento della pressione fiscale. Dagli atti parlamentari risulta che facendo la media di quanto riscosso (tra il 27% e il 12,5%) scaturisce una percentuale del 16% (che Il Giornale oggi riporta al 14%, ma poco cambia).
E’ chiaro che un prelievo del 20% rappresenta un inasprimento, un ulteriore drenaggio di risorse da classificare senz’altro tra le pessime idee visti i tempi di antipolitica e considerando che quest’ultima è alimentata anche da una pressione fiscale eccessiva e squilibrata rispetto ai servizi erogati dallo Stato ai cittadini.
Un aumento della pressione fiscale, oltre che nocivo per la ‘crescita economica costituirebbe anche una mossa in controtendenza rispetto all’Europa oltre che contraddittoria rispetto agli obiettivi che lo stesso Governo si è imposti.
La posizione di Governo e maggioranza sembra superare questo pericolo: se il maggior introito è destinato a finanziare sgravi fiscali sul lavoro dipendente non v’è più motivo di contendere.
Va poi considerata la posizione, espressa dai liberaldemocratici per voce di Lamberto Dini secondo la quale l’armonizzazione delle rendite è «desiderabile» ma il 20% si deve applicare solo sui titoli di nuova emissione perché altrimenti «potrebbe essere interpretato dai risparmiatori come una truffa dello Stato».
Ed in effetti, la misura non appare tra quelle ‘market friendly’. Se il risparmiatore ha comprato dei BTP sapendo di pagare il 12,5% per i prossimi 10 anni, non si possono cambiare le regole strada facendo imponendo una maggiore tassazione.
A questa constatazione si possono però opporre due diverse controdeduzioni che fanno apparire la posizione di Dini come un rimedio peggiore del male. La prima è che applicando il 20% solo ai titoli di nuova emissione si creano due categorie di titoli in circolazione, si ottiene, cioè, una segmentazione del mercato con ripercussioni negative sulla gestione del debito pubblico.
La seconda è invece di ordine quantitativo: siccome nel 2008 saranno emessi ‘solo’ (si fa per dire) 180 miliardi di titoli di stato (a fronte dei 1300 miliardi in circolazione) il maggior introito derivante dall’armonizzazione al 20% sarebbe limitato a qualche centinaio di milioni di euro e la misura richiederebbe quasi un decennio per andare a regime.
Mi paiono strumentali e trascurabili, infine, le altre argomentazioni contrarie alla normalizzazione. A chi ritiene – professandosi liberale – che la misura penalizza il risparmio (e furbescamente parla di tassa sul “risparmio” e non sulla rendita) bisogna ricordare che tali rendite in paesi più liberali, quali quelli anglosassoni, o più avanzati, quali la Germania, pagano aliquote ben più consistenti.
A coloro che invece sostengono che l’Italia, avendo un debito alto (ed è vero) ha bisogno di agevolare il suo collocamento con una tassazione mite, bisogna ricordare che l’appeal internazionale di un paese non dipende solo dal livello della tassazione, ma dalla sua affidabilità complessiva, e che per gli investitori esteri, in quanto lordisti, il cambio di aliquota non ha alcun effetto.