Grillo vs Telecom: l’inutilità del populismo

E’ passato poco più di un anno da quando Beppe Grillo comprò una pagina di Repubblica per chiedere pubblicamente le dimissioni dei vertici di Telecom Italia.

Di invettive contro Marco Tronchetti Provera, rinominato il tronchetto dell’infelicità, Beppe Grillo ne ha lanciate tante: a questo link se ne trovano decine.

Il 26 settembre 2006, nel suo post dal titolo “Telecom: una storia italiana”, Grillo commentava le dimissioni di Tronchetti Provera : Si dimette lasciando 41 miliardi di debiti che rimangono, escludendo obbligazioni e cartolarizzazioni varie (i pagherò agli investitori), suppergiù quelli di Colaninno. Ma con in meno tutte le aziende vendute. Il colpevole è quindi chiaro. E’ il dito medio della mano invisibile del mercato. Che ha colpito tutti coloro che hanno perso il loro posto di lavoro e i loro risparmi investiti in azioni Telecom. E’ un dito che ci vede bene, benissimo. Per questo ignora manager e azionisti di controllo per i quali la Telecom è stato un grande affare, il migliore della loro vita.

Il ragionamento di Grillo era dunque chiaro ed inequivoco: Tronchetti Provera, era responsabile del cattivo andamento della Telecom, che si rifletteva nel continuo calo di valore delle azioni, e il ‘tronchetto’ divideva la responsabilità con manager e azionisti di controllo che lo avevano preceduto e avevano lucrato alle spalle di piccoli azionisti.

Da qui, la campagna per la “cacciata” dei cattivi amministratori e a difesa dei piccoli azionisti, cioè quelli che comprarono le azioni Telecom quando fu privatizzata ivi compresi coloro che si fecero dare azioni in cambio del Tfr.

Il metro per giudicare se, come, quando e quanto questi piccoli azionisti siano stati turlupinati va ovviamente ricercato nei prezzi di borsa del titolo Telecom e quindi, dal punto di vista della campagna di Grillo, i manager di Telecom sono validi sole se riescono a far salire le quotazioni.

Orbene, da circa un anno la Telecom ha cambiato azionista di controllo ed ha cambiato amministratori. Sono arrivati gli spagnoli di Telefonica, le grandi banche italiane e guarda caso, è tornato anche Franco Bernabè che era l’amministratore che si oppose all’opa di Gnutti-Colaninno, l’operazione che ha innescato la spirale del debito in Telecom e dalla quale il nostro Grillo fa discendere tutte le successive sciagure.

Ieri, venerdì 7 marzo, si è celebrato il ‘Telecom day’ durante il quale Bernabè ha illustrato i risultati di bilancio 2007 e il nuovo piano industriale della società che, a detta degli esperti e come riportano i giornali di oggi, è un “non piano”, scarno e poco ambizioso che rimanda al prossimo piano, quello vero, che ci sarà a fine anno. Il risultato è stato un tonfo in borsa che ha ben continuato un pesante trend negativo praticamente ininterrotto da quando è arrivata la nuova proprietà.

Siccome mi ero già occupato della vicenda, posso dirvi che nel periodo dal 2000 al 2006 (compresi) – il periodo incriminato da Grillo – la performance in borsa del titolo Telecom Italia è stata negativa del 7,7% annuo (cioè le azioni sono calate in media del 7,7% ogni anno).

Il ragionamento di Grillo inizia a mostrare le prime crepe quando consideriamo che nello stesso periodo – dal 2000 al 2006 – la media dell’intero settore Telecom europeo è stata negativa del 7,5%.

Detto in altri termini, la presenza o meno di Colaninno o di Tronchetti Provera, la proprietà pubblica o privata delle aziende, non ha influito in modo determinante sul valore di Borsa del titolo perchè l’andamento è stato simile alla media europea, dove aziende ancora pubbliche (France Telecom per esempio) ed aziende ottimamente amministrate (Vodafone per esempio) hanno avuto lo stesso identico andamento.

Ma dopo le prime crepe il ragionamento Grillo frana completamente se consideriamo che negli ultimi sei mesi il titolo Telecom ha perso il 30% del suo valore.
Nello stesso periodo gli ex monopolisti francese e tedesco hanno perso, rispettivamente, il 2% e l’11% del loro valore.

Come si fa, dunque, a sostenere che la colpa era di Tronchetti Provera se a distanza di oltre un anno dalle dimissioni il valore è letteralmente crollato? Se fosse solo colpa di un brutto periodo dei mercati borsistici, allora anche le altre aziende europee avrebbero dovuto risentirne nella stessa dimensione, ma non è stato così.

Se ancora non bastasse, aggiungiamo che a parità di fatturato rispetto all’anno scorso la redditività della Telecom Italia è scesa di qualsi il 10%. Il socio spagnolo, Telefonica, ha invece sorpreso gli analisti con risultati positivi e migliorati.

Il dito di Grillo era evidentemente puntato nella direzione sbagliata. Sul sito di Beppe Grillo ho fatto una ricerca e ho visto che da quasi un anno ha smesso con gli attacchi ossessivi al management di Telecom Italia, salvo ricordarsi, a novembre 2007, di scrivere una lettera aperta a Bernabè chiedendo, manco a dirlo, una cacciata di manager.

Errare è umano, perseverare è diabolico? Il sopravvenuto silenzio sarà frutto del caso? Dove sta il vantaggio che avrebbe dovuto ricavarne il piccolo azionista Telecom che ha incaricato Grillo di rappresentarlo? A giugno prossimo ci sarà un’altra inutile sceneggiata con Grillo difensore… di chi?

La verità è che il populismo non porta a niente. I problemi della Telecom Italia sono gli stessi che affrontano gli ex monopolisti europei che, per sostenere una agguerrita concorrenza, vedono calare le tariffe e quindi ridursi i loro margini reddituali.

Il cittadino consumatore ne beneficia (e infatti la voce telefono è tra le poche scendono nel paniere per il calcolo dell’inflazione) e il cittadino azionista ne paga le conseguenze.

C’è un modo per difendere contemporaneamente l’uno e l’altro? Certamente si, ma è l’opposto del metodo “Grillo” perchè se dopo il cambio in 10 anni di ben quattro proprietari e altrettanti gruppi dirigenti il valore dell’azione è continuamente calato, vuol dire che il problema non si risolve ‘cacciando’ gli amministratori.

Quello che il populismo di Grillo non consente di dire è che la trasformazione di un monopolista, che viveva protetto, di rendita, in una azienda competitiva, che vive di successi concorrenziali, richiede una revisione legislativa e organizzativa a tutti i livelli.

Dal lato proprietario bisogna scardinare il sistema di scatole cinesi (caratteristica tutta Italiana) che consente di acquisire aziende di rilevanza internazionale con aliquote minime di capitale e in dispregio dei diritti dei piccoli azionisti.

Dal lato organizzativo, però, bisogna spezzare i veti incrociati di sindacati e sindacalisti, consulenti, appaltatori, poteri locali, che limitano l’efficienza operativa della Telecom.

Di quest’ultimo aspetto si preferisce tacere perchè non piace (e men che mai ad un populista) ammettere la necessità, dolorosa, di licenziamenti, trasferimenti, scorpori, riorganizzazioni e tagli.

Non piace perchè in questo paese manca un sistema di welfare che consente la tutela del ‘lavoratore’ a scapito della tutela del ‘posto’ di lavoro. Diminuire le tutela agli illicenziabili e iperprotetti per sostenere il reddito e la riqualificazione professionale dei non protetti.

E su questo punto, come si fa a non vedere che coloro (la destra corporativa e populista e la sinistra massimalista) che difendono lo status quo legislativo sono poi gli stessi che si lamentano delle mani ‘straniere’ e ‘imperialiste’ che pezzo dopo pezzo, dalla chimica all’informatica, dall’alimentare all’Alitalia, stanno portando all’estero la propietà di interi settori economici nazionali.

Pensate che non possa succedere anche a Telecom Italia?