PRIMA PARTE DELL’INTERVISTA DI EDOARDO FERRAZZANI A FIAMMA NIRENSTEIN
Tutto inizia qualche giorno prima della mia partenza per Israele.
Ambisco ad intervistare Fiamma Nirenstein. Così le mando una email, timida e forse improbabile.
Chiedo di poterla incontrare in una delle sue città, Gerusalemme, per una breve, brevissima intervista.
Inaspettatamente riceviamo risposta e, di lì a poco, la incontriamo al museo italiano di Gerusalemme al margine di un incontro, avuto luogo il 30 Dicembre dove assieme a sua madre, Fiamma Nirenstein riporta alla luce, con grande affetto e calore, alcuni episodi intimi della vita di suo padre, Alberto Nirestein, giornalista e scrittore, da qualche mese scomparso.
Scopro così alcuni frangenti dell’infanzia della mia giornalista e forse anche l’origine della sua professione.
Dopo una fugace presentazione mi invita a ritrovarci di lì a pochi giorni.
Ed è così che in un’uggiosa mattinata di shabbat, lo scorso 5 Gennaio la ritrovo.
Mi accoglie nella sua casa.
Appena varcato l’ingresso l’impatto è forte: dalla grande vetrata del suo salotto Gerusalemme mi appare diversa. Forse interpretando la nostra espressione, Fiamma Nirenstein mi racconta, con un sottile ghigno ironico, come ogni mattina si svegli al suono di una moschea vicina che con grande solennità, inneggia alla morte di Israele.
In attesa di un buon caffè rivolgo discretamente il mio sguardo alla sua copiosa raccolta di libri. Ai numerosi giornali e riviste che, già straziati da una rassegna mattutina, sono sparsi sul suo tavolo. Resto lì, ancora pochi istanti, tra pezzi di storia personale incorniciate, come quel trafiletto di giornale che milita su un comodino e che ci ricorda che Fiamma Nirenstein ricevette, non molti anni fa, un premio giornalistico assieme alla giornalista dissidente, Anna Politkovskaja.
Ci sediamo e parliamo di tutto. Della sua storia personale e professionale, delle sue iniziative politiche, di attualità mediorientale e non solo.
Durante gli anni della sua formazione politica, Lei è stata…
Una comunista!
Una comunista che ha incominciato a fare giornalismo in giovanissima età, e che militava pienamente nella cultura politica italiana?
Si! Salvo per il fatto di essere ebrea che ha sempre rappresentato un aspetto universale, internazionale in un certo qual modo. Però sono sempre rimasta un’ebrea italiana.
Un’ebrea di sinistra. A questo proposito nel 1982 firmai, quel documento, che forse è una delle poche cose di cui veramente mi dispiaccio oggi. Non mi pento, quella ero. Che c’è da pentirsi? Si tratta di quel documento contro la presenza israeliana in Libano.
Oggi firmerebbe quel documento?
No! Oggi non lo rifarei.
Cosa prevalse allora?
Prevalse la mia militanza politica e il mio perbenismo. La mia appartenenza alla borghesia italiana di sinistra. Un’appartenenza prima di tutto intellettuale, al mondo sia degli storici, dal quale io provengo, poiché di formazione sono una storica, e quello del giornalismo. Due mondi di sinistra.
Mondi che hanno propalato una quantità di menzogne sul conflitto israelo-palestinese. Nonostante il fatto che dal ’67 in poi, anno della Guerra dei Sei Giorni, avessi incominciato a capire come stavano le cose.
Mi era capitato di essere qui in Israele durante quella guerra, e quando tornai in Italia, incominciai a capire, che non ero più l’ebreo buono, morto nell’olocausto, con cui quindi si poteva piangere e allearsi, a cui si poteva dare delle pacche sulla testa. Bensì ero diventata parte di un mondo che non aveva più voglia di farsi mettere i piedi in testa.
Quel mondo di Israele. L’Israele del ’67 nel bel mezzo del quale mi ero ritrovata, seppur per caso, in un kibbutz del Nord.
Da allora per me si aprì una finestra che mi consentirà, molto più in là, di ricredermi sulla mia appartenenza ad un certo mondo politico.
Ma nonostante ciò, io dal 1967 al 1982, rimango nell’alveo della cultura marxista italiana.
Questo dà la cifra della vischiosità, dell’amalgama ideologica in cui ero immersa.
Esiste un momento in cui, nella sua storia personale, si consuma una trasformazione identitaria? Il momento in cui Fiamma Nirenstein diventa, per così dire, israeliana?
Una volta per tutte. Io non sono israeliana! Io sono solo italiana! Per un semplice motivo:
se avessi il doppio passaporto italo-israeliano non potrei andare nei Territori.
E’ proibito ai cittadini israeliani circolare nei Territori palestinesi.
Solo per questo motivo non ho il doppio passaporto!
Appena io riterrò di poterlo avere, prenderò la doppia cittadinanza.
Ben inteso, resterò sempre anche italiana. Io amo l’Italia e non solo amo l’Italia ma mi sento molto legata a Firenze.
Mi sento ancora oggi fiorentina. Appartenenza che richiama a mio avviso, un fare geometrico, un dire esatto.
Torniamo ai suoi primi passi di giornalista. Prima ”Paese Sera”, poi collabora con ”L’Europeo” di Sechi, giunge ad ”Epoca” fino a sbarcare a ”L’Espresso” ?
Certo, collaborai con tutte queste testate. A ”Paese Sera” presi le mosse per la mia carriera giornalistica. Ma sicuramente ”Epoca” rappresentò un decisivo ambiente professionale in cui crebbi molto. Lo lasciai per ”L’Espresso”, pensai che fosse una buona scelta. Dovetti ricredermi ben presto. I pregiudizi antiebraico e anti-israeliano erano troppo forti.
Pregiudizi che purtroppo ho ritrovato frequentemente, nel corso degli anni, in molte circostanze apparentemente molto ”aperte” ma in realtà intrise di pregiudizio e disonestà.
Lei è stata anche un’attivista politica? Ha mai abbracciato l’estremismo politico?
No, mai. Io sono sempre stata una comunista libertaria. Questo mi permette di dire, che in fondo, sono sempre stata un Radicale. Non ho mai creduto nella rivoluzione bolscevica, né tanto meno nell’accentramento o nel controllo dei mezzi di produzione. Men che mai nella bontà dell’Unione Sovietica. Io ho sempre creduto nella democrazia. Le ragioni del mio essere iscritta al partito comunista italiano le ritrovavo nel mio intimo piacere di stare tra la gente, di poter allargare i miei confini di borghese fiorentina di famiglia ebraica. Mi divertiva andare nelle sezioni, parlare con le
persone. Comizi, incontri nei paesini della profonda toscana. Non è un caso che lasciai il partito comunista quando Aniello Coppola mi fece sbarcare a Roma, dove questo contatto lo persi. Non conoscevo nessuno. Anche in quell’occasione mi fecero una specie di ”processo”: femminista convinta, con la minigonna.. Lei immaginerà?
Ma evidentemente in quel momento mi sentivo di poter appartenere, disorganicamente, a quel tipo
di opposizione democratica.
La sua identità ebraica conviveva pacificamente con gli ambienti politici di sinistra oppure no?
Inizialmente queste due identità convivevano tranquillamente. Come lei saprà, mio padre Alberto Nirenstein incominciò il suo percorso come membro della Shomer Hatzair ( organizzazione sionista di estrazione socialista) e mia madre era una partigiana di G&L, comunista. Io vengo da questo ambiente familiare. Tutti erano di sinistra nella mia famiglia. Io non potevo che essere di sinistra.
Ma tanto per dirla tutta, Io sono rimasta di sinistra. Sono ”LORO”, i comunisti non ‘riformati’, che sono diventati dei conservatori, conformisti, dei bugiardi, e soprattutto, dei sostenitori di dittature.
La sinistra italiana continua a non capire Israele. Israele è l’unica democrazia in medioriente.
Israele è oggi quella che io chiamo ”l’avanguardia dell’occidente”, circondata da un branco di dittature, intente a far di tutto perché Israele abbia la vita più dura possibile, quando va bene.
Altri ancora si preoccupano di poterla distruggere.
Le menzogne che l’editoria di sinistra italiana continua a propinare ai lettori dei loro giornali è ributtante. Basti pensare alle menzogne quotidiane che ”Il Manifesto”, ”L’Unità” ma anche ”La Repubblica” devo dire, riversano sulle loro pagine quando si parla di Israele.
Lo scorso 10-11 Dicembre 2007, Lei ha organizzato, assieme ad altre donne e uomini, fondazioni e centri ricerca, un convegno sui dissidenti nell’Islam.
La stampa italiana di destra vi ha dedicato ampio spazio. Quella di sinistra come si è comportata?
Questo convegno, organizzato tra gli altri dalla Fondazione Magna Charta, a cui sono stati invitati figure eroiche della dissidenza mediorientale: da Amir Abbas Fakhravar, leader della dissidenza iraniana, che ha subito anni di tortura bianca nelle carceri iraniane, a Saad Eddin Ibrahim e tanti altri. Eroi purissimi, su questo conveniamo, no? Non era presente un solo giornale ‘pesante’ di sinistra. Ad onor del vero, solo il giornale ”Liberazione” ha mandato qualcuno a fare cronaca. Per il resto niente. ”Liberazione” è sempre stata la migliore da questo punto di vista. Da quando io ho la
scorta, ovvero dal 2001, ”naturalmente” in Italia, Rina Gagliardi in persona, venne a farmi un’intervista, proprio durante uno dei tanti ”attacchi beduini” che ho subito nel corso di questi ultimi anni.
Mi accusavano di essere una ”settler”, al soldo degli israeliani, una collaborazionista.
La presenza di ”Liberazione” al convegno sulla dissidenza mi fa sperare che esista ancora un barlume di comunismo libertario nel nostro paese.
Al contrario trovo che non esista niente di più stantio del ”Manifesto”.
Favorire diffusione di libertà politiche in regimi ove esse sono quasi completamente assenti. E’ stato questo il ‘Leit Motiv’ dei lavori della conferenza sulla dissidenza islamica.
Fiamma Nirenstein si sente di trarre delle conclusioni su ciò che dovrebbe essere fatto per favorire un processo più celere di democratizzazione nella regione mediorientale?
Indubbiamente la democratizzazione è sempre il primo punto dell’agenda politica quando si parla della regione mediorientale. Il declino delle tirannie libera i popoli dai loro pregiudizi.
Libera gli eserciti da ordini inconsulti.
Libera le società dal rifornimento di armi al servizio dell’ideologia.
Libera le comunità dal rischio del terrorismo.
Queste considerazioni si applicano con riferimento anche all’Autorità Nazionale Palestinese.
Se essa non fosse di natura dittatoriale, forse non ci sarebbero tanti terroristi tra le sue fila.
Mi riferisco innanzitutto ad Hamas, ma non lesino questa critica anche a Fatah.
Allora se il regime politico delle ”Autorità” palestinesi ha natura dittatoriale, ci verrebbe da pensare che di elezioni farsa si è trattato quando, due anni or sono, esse si sono svolte nei Territori e a Gaza?
Ahimè elezioni farsa non sono state. Anzi dettero loro dei risultati direi ‘non inaspettati’.
Tanti anni di incitamento all’odio hanno dato i loro frutti. Hamas, per esempio, negli ultimi quindici anni, ha profuso un’ideologia di odio anti-israeliano, inculcandola nei suoi figli, cresciuti in un clima di odio.
Non c’è da stupirsi se, tanta parte dell’elettorato giovanile palestinese, ha finito per convogliare i propri consensi verso Hamas. Votare il più anti-israeliano possibile, il più anti-occidentale possibile.
E ancora Fatah. Pensiamo a quanto lo stesso Arafat, negli ultimi anni della sua sua vita, fosse diventato veramente un leader che non celava minimamente il suo disgusto per l’esistenza di uno Stato ebraico. E ancora la sua preferenza apologetica per il martirio infantile. Basti citare il suo lugubre discorso di Gerusalemme:_” Cosa può esserci di più bello di schiere di bambini mandati a morire.” Quel discorso, senza ombra di dubbio, fu un turning point nel suo agire politico.
E ancora la sua riscoperta religiosa, Corano alla mano.
Egli ha, così agendo, consegnato il consenso delle popolazioni palestinesi nelle mani di Hamas.
Ed egli, non ha fatto vincere Hamas solo a Gaza. Ricordiamoci che Hamas aveva riportato la maggioranza delle preferenze anche nei Territori.
Non nego che forse oggi Abu Mazen, a forza di frequentare Salaam Fayad…
I cosiddetti moderati dell’Anp?
Forse, chissà. Non nego che a forza di essere accolti alla Casa Bianca, questi leader possano aver incominciato ad aver voglia di scendere a compromessi con il governo Israeliano.
Ma ormai ciò che loro hanno seminato, cioè odio e solo odio, non gli consentirà di andare dalle popolazioni palestinesi e spiegare le loro scelte.
Le posizioni dell’ANP si sono molto radicalizzate. Durante le prime reggenze Arafat la litania politica era racchiusa nel principio ”due stati per due popoli”…
Oggi la radicalizzazione nell’ANP non fa che alzare la posta?
Oggi quello che viene opposto all’esistenza di Israele è sintetizzabile nella formula: non può esistere uno Stato Ebraico perché non può esistere uno Stato confessionale.
Mi vien da ridere! Intanto i palestinesi dovrebbero sapere che l’ebraismo non è una confessione nel senso puro del termine, ma è un popolo che ha caratteristiche come nel caso di moltissimi ebrei e nel mio caso, totalmente laiche.
Senza contare che non esiste un solo Stato arabo nella regione che non si presenti come Stato islamico. Invito chiunque ad oppormi il contrario. Iran, Arabia Saudita, la Lega dei paesi musulmani, nessuna di queste entità prescinde da un esplicito richiamo a precetti religiosi.
Da cronista di guerra, che oggi vive in una società democratica e militarizzata, come quella israeliana, avrà una sua personale idea sul ricorso alla risorsa bellica. L’azione politica ‘manu militari’ sembra riportare risultati piuttosto controversi nella regione. Si pensi a ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi cinque anni dopo l’ingresso a Baghdad delle truppe dei ‘willings’. Fino a che punto lo strumento bellico ottiene buoni risultati in medioriente?
Sino a che il tuo nemico non utilizza uno strumento diverso. Monsieur de la Palisse!
Non capisco perché gli europei continuamente mi pongano questa domanda.
A questo proposito, qualche giorno fa, parlando con un mio amico statunitense il cui figliuolo è di stanza in Iraq, alla mia domanda di rito ”che notizie hai della sua permanenza in Iraq?” mi rispondeva ”beh, sai da quando è arrivato Petreaus non si combatte più e li fanno lavorare come carpentieri per le città.” Il Gen. Petreaus ha imposto una tattica molto semplice. Quando si subisce un attacco da parte di gruppi miliziani o terroristici, non ci si deve limitare a inviare una squadra a reprimere sommariamente l’ insurgency. Bensì è necessario presidiare il territorio.
Restare e ripristinare stabilmente la pace.
In più, luoghi pacificati facilitano il perseguimento di strategie di conciliazione e di alleanza tra le vari fazioni religiose.
I maggiori governi europei, soprattutto quelli continentali, sembrano profondamente restii a voler dotare la propria politica estera di uno strumento militare effettivamente dispiegabile.
Quanto durerà questa ‘démarche’ a suo avviso?
Ancora per poco. Quando la maggior parte di questi governi si accorgeranno che paesi prossimi alla regione europea, non democratici, si saranno effettivamente dotati di armamenti nucleari, questi governi saranno chiamati a rivedere sostanzialmente le proprie politiche. Quando sei attaccato puoi decidere di non opporti oppure puoi rivedere la strategia complessiva e decidere di dotarti di efficaci strumenti di deterrenza. Esiste un momento in cui i governi sono chiamati a difendere i propri cittadini. Si può fare come ha fatto il governo spagnolo che è scappato a gambe elevate dal teatro iracheno. La Gran Bretagna, al contrario, sembra aver colto fino in fondo la sfida che si pone innanzi ad ogni governo democratico. L’attacco subito dall’Inghilterra sul proprio territorio ha indotto, a mio avviso, il governo britannico alla consapevolezza che esso alludeva a pericoli, diciamo, di lungo periodo.
Quali sarebbero questi pericoli a cui fa riferimento?
Beh pensiamo per un attimo all’Iran e al suo programma nucleare. Io, come tanti altri, ho letto il rapporto N.I.E. statunitense sul dossier nucleare iraniano. In base a quel rapporto, nel 2003 anno dell’intervento anglo-statunitense in Iraq, il governo degli ayatollah avrebbe congelato, e non interrotto, il programma nucleare.
Ma quel rapporto, reso noto nel novembre 2007 e fondato su dati di intelligence del maggio dello stesso anno, mette in guardia chiunque si sia illuso che il programma iraniano sia stato interrotto del tutto. Si ipotizza non solo la ripresa di tale programma ma anche il raggiungimento della bomba per l’anno 2011. L’unico dato che diversifica i rapporti di intelligence israeliani da quelli statunitensi, è il pronostico temporale sull’anno del raggiungimento da parte iraniana della capacità nucleare militare. Gli israeliani lo prevedevano per la fine del 2008, ovvero alla fine dell’anno appena
incominciato, massimo nel 2009 mentre l’intelligence Usa per il 2011.
Ben poca differenza a pensarci bene.
Sul dossier nucleare iraniano, le misure intraprese dalla troika Europea e dal consiglio di sicurezza ONU in materia di sanzioni economiche non sembrano dare risposte efficaci. Le sanzioni economiche sono oramai uno strumento spuntato?
Le sanzioni sono interventi deboli, fragili per definizione.
E in più penalizzano le popolazioni civili, almeno questo vuole la vulgata?
Beh, i regimi che subiscono le sanzioni penalizzano molto di più le popolazioni civili di quanto non facciano interventi sanzionatori esterni. Pensiamo al programma Oil for food per l’Iraq di Saddam Hussein. Quel dittatore si lamentava perché le sanzioni penalizzavano la sua popolazione civile ma , as a matter of fact , lui aveva fatto degli accordi per cui, tutte le procedure previste dall’ Oil for Food venivano completamente scavalcate e Saddam, o chi per lui, riceveva direttamente aiuti finanziari che occultamente venivano reinvestiti in paradisi bancari, favorendo il suo arricchimento.
In più, questi denari, si parla di miliardi USD, venivano impiegati per seguitare a creare armamenti, per sostenere il terrorismo nella regione, tra cui anche quello palestinese.
Ciò che lei ci dice, ci permette di introdurre nella nostra conversazione, un decisivo aspetto che riguarda, più in generale, l’intervento che la comunità internazionale opera, attraverso aiuti finanziari, nei confronti delle popolazioni civili di paesi in cui le condizioni di vita appaiono critiche. Recentemente lei ha avuto modo di ricordare che, tra il 1993 e il 2002, secondo dati forniti da autorevoli organizzazioni internazionali, l’ANP avrebbe ricevuto più di otto miliardi USD tra aiuti economici e finanziari. Esiste un modo, a suo avviso, per impedire una gestione autocratica di queste risorse?
Le popolazioni che vivono nei Territori Palestinesi o soggetti all’autorità dell’ANP, sono le popolazioni più aiutate, pro capite, rispetto a qualsiasi altro popolo del mondo.
Questo fenomeno ha prodotto un effetto paradossale: più che incrementare il PIL dei Territori, lo ha fatto diminuire.
Le cause sono evidenti. Da un lato una corruzione dilagante e dall’altro i costi per il reperimento, sul mercato internazionale, di armamenti. A proposito di armi, pochissimi giorni fa, sono stati sequestrati, in accesso verso la striscia di Gaza,dei camion E.U. che trasportavano materiali per la costruzione di missili Kassam. Questi materiali potranno anche essere venduti dall’Iran a dei prezzi politici, ma hanno comunque un loro costo.
E allora ci accorgiamo che i nostri denari vengono utilizzati per altri scopi.
Hamas ha raccolto ingenti risorse negli scorsi anni. Esse sono state bloccate e poi di nuovo rese disponibili. Quest’organizzazione terroristica si arma con denari provenienti anche dal circuito degli aiuti internazionali.
Noi adoriamo scrollarci di dosso il problema con il sistema degli aiuti. Mandiamo il nostro denaro pubblico e non ci curiamo del fatto che questa politica rafforza il terrorismo e favorisce una deresponsabilizzazione delle elitès palestinesi vis-à-vis delle popolazioni palestinesi.
Soluzioni?
Infrastrutture, fabbriche, creazione di posti di lavoro. Il problema è che oggi, ad esempio, chi mai si sentirebbe di investire capitali privati per la costruzione di un insediamento industriale nella striscia di Gaza? Nessun imprenditore sarebbe disposto a fare un investimento così ardimentoso. Ed è probabile che anche la dirigenza di Hamas non sia intenzionata a creare le precondizioni di stabilità politica che favoriscano questo genere di investimenti esteri. Immagino che, dal loro punto di vista, sia preferibile continuare a raccogliere sul piano internazionale le risorse diciamo ‘politiche’, i c.d. ‘aiuti alla causa’, piuttosto che creare un sistema di prelievo fiscale stabile, corollario di uno sviluppo economico che oggi è semplicemente impossibile. Perché Hamas oggi dovrebbe responsabilizzarsi di fronte alla sua popolazione? Va chiaramente contro i suoi propri interessi.
Insomma molto più comodo ricevere, per così dire, cash!
Senza contare che la stabilità politica a Gaza oggi è semplicemente un’utopia. Gli scontri armati tra miliziani di Fatah e di Hamas sembrano non volersi arrestare.
Bezalel, organizzazione israeliana molto simpatetica con i palestinesi, in un suo recente rapporto, è giunta ad ammettere che le presunte violazioni dei diritti umani che oggi si consumano nella striscia di Gaza hanno superato ampiamente, per tenore e durezza, le presunte violazioni da parte israeliana.
Nell’ultimo anno molti sforzi sono stati messi in campo dai governi de El Cairo e da quello Saudita, per favorire la fine delle ostilità tra Fatah e Hamas. Tali manovre si muovono solo in funzione anti-iraniana, oppure c’è qualcosa di più in ballo?
Il governo egiziano, dal canto suo, è sicuramente più legato sul piano ideologico al movimento Fatah. Ma il presidente egiziano Mubarak è altrettanto preoccupato dalla relazione privilegiata che Hamas intrattiene con il governo iraniano degli ayatollah, e che ciò possa creare un avant posto iraniano-sciita proprio al confine con l’Egitto. Proprio in queste ore, mentre noi discutiamo, sono in corso trattative per riconciliare le due fazioni. A mio modestissimo avviso, così facendo, il governo egiziano commette un gravissimo errore.
Non solo ma proprio a riprova del fatto che dietro tutto questo, vi siano in ballo equilibri regionali, e non solo piccole beghe fratricide tra fazioni palestinesi, è notizia di ieri, che Larijani, il rappresentante esterno del governo iraniano per la questione nucleare, in visita al El Cairo, abbia offerto assistenza tecnica in materia di nucleare al governo egiziano.
Ma non solo. Larijani avrebbe incontrato, al margine dei suoi incontri ufficiali, anche uno dei leader della fratellanza musulmana.
E come conseguenza di questa breve visita, il presidente egiziano Mubarak ha immediatamente rotto il patto che egli aveva contratto con il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, pochissimi giorni fa, quando l’Egitto si era impegnato a non far accedere i pellegrini di Gaza, di rientro dalla Mecca, dal passaggio sotto controllo egiziano di Rafia bensì da quello israeliano.
Insomma Mubarak ha fatto quello che gli chiedeva Larijani.
CONTINUA NEL PROSSIMO NUMERO!